Rassegna stampa falcri 10 marzo 2009

RASSEGNA STAMPA FALCRI 10 MARZO 2009
A cura di Manlio Lo Presti
ESERGO


Il solo, il vero programma di ogni italiano è di essere in buoni rapporti con il partito al
potere.
C. MALAPARTE, Deux chapeaux de paille de l’Italie

Disoccupati, allarme della Ue
Borse europee contrastate
Allarme Ue. Una «recessione senza precedenti che potrebbe causare altri 6 milioni di disoccupati
entro il 2010» e produrre «gravi conseguenze sociali per le famiglie e le persone». Sono le
considerazioni del progetto di documento del «Comitato per l'occupazione e per la protezione sociale», contenente i messaggi chiave del Consiglio Epsco al Consiglio europeo di primavera e anticipato dall'Agi. Nelle ultime stime Ue si era parlato della perdita di 3,5 milioni di posti di lavoro solo per il 2009 e di un tasso di disoccupazione per la zona euro pari al 9,25%.
Le borse. Chiusura contrastata per le principali Borse europee, mentre Milano è sempre la
peggiore piazza azionaria del Vecchio Continente. Londra avanza dello 0,33% a 3.542,30 punti. a
Milano il Mibtel cede l'1,82% a 10.544 punti. Sale dello 0,7% a 3.692,03 punti il Dax di Francoforte e a Parigi il Cac 4' arretra dello 0.6% a 2.519,29 punti. A Londra Lloyds sale dell'1,5% e Hsbc perde l'11%. L In mattinata la Borsa di Tokyo aveva chiuso al livello più basso degli ultimi 26 anni, sulla scia di nuove previsioni fosche per l'economia giapponese e delle preoccupazioni per il futuro della General Motors. L'indice Nikkei ha ceduto l'1,21% e si è attestato a quota 7.086,03, la chiusura più bassa dall'ottobre 1982.
La crisi banche. La crisi economica fa sentire i sui effetti anche sui bilanci bancari con le
sofferenze (i cosiddetti crediti di difficile esigibilità riferiti a società non finanziarie, quindi famiglie
e imprese) che a gennaio sono aumentate del 2,82% a 26,768 miliardi di euro dai 26,032 mld di fine 2008. È quanto emerge dal Bollettino al Supplemento statistico di Bankitalia, nel compendio «Indicatori monetari e finanziari». Berlusconi: «Venerdì il piano per la casa» Pressing del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e di quello delle Riforme, Umberto Bossi, sulle banche. E nel giorno in cui il presidente della Repubblica mette in guardia dalla crisi fi-nanziaria ed economica, che «dà segni piuttosto di ulteriore aggravamento che non di allentamento», resta accesa la polemica tra gli schieramenti. Al leader del Pd, Dario Franceschini, che lo ha accusato di nascondere la crisi e che ieri ha aperto un nuovo fronte con la proposta di una moratoria sui licenziamenti dei precari pubblici, il premier Silvio Berlusconi, nel corso di una passeggiata di acquisti a Roma, ha risposto un basta con «i catastrofisti e i profeti di sciagura», perché per uscire dalla crisi «bisogna essere ottimisti », e quindi «con il pessimismo si fa soltanto il male dei cittadini». «Sono venuto a fare una ricognizione», ha riferito, e «ho visto che c’è tanta gente che acquista e i negozianti che ho interrogato non si lamentano ed anzi dicono che le cose funzionano più o meno come l’anno scorso». Il premier ha confermato che venerdì il governo varerà un piano per l’edilizia che avrà «effetti straordinari », ma «non permetterà abusi» e ha concluso invitando «coloro che lanciano queste grida di sciagura, da fine del mondo» a mettersi «la mano sulla coscienza e dire: ma cosa ci guadagno? Faccio il male mio e di tutti i miei concittadini». «L’articolo 47 della Costituzione è in questo momento il più importante», ha detto Tremonti nel suo intervento ad un convegno milanese sulle piccole e medie imprese, citando quella parte dell’articolo nella quale si afferma che lo Stato incoraggia e tutela il risparmio, «disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito». «Non pretendiamo – ha aggiunto – che le banche smettano di fare le banche, ma devono fare qualcosa in più e pensiamo che sia fattibile con i nuovi strumenti». Per il ministro si devono salvare le famiglie, il lavoro, le imprese e la parte buona delle banche. «Ma non possiamo salvare i banchieri falliti – ha avvertito – anche se è quello che si tenta di fare in troppe parti del mondo». Le banche dovrebbero agire con la saggezza del «bonus pater familias», ma Tremonti ha osservato che «troppe volte in banca si è pensato più al bonus che alle famiglie». «Se non si danno i soldi alle imprese è inutile aiutare le banche», aveva esordito Bossi al margine del medesimo convegno. Il leader della Lega è d’accordo «a nazionalizzare le banche, se questo significa dare o ridare quello che è stato preso prima». Secondo il ministro delle Riforme «prima c’erano le Casse di risparmio, grandi banche svuotate dalla caduta della Dc e dei Socialisti che hanno creato le Fondazioni». Dunque «il sistema produttivo era sostenuto dalle grande Casse di risparmio ed è saltato tutto». Ora «serve un sistema di controllo legato al governo » che sia in grado di verificare l’effettiva erogazione di credito alle imprese. È previsto infatti per mercoledì l’incontro tra il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, e i prefetti per l’istituzione degli osservatori per il controllo del credito. E sugli ammortizzatori sociali, Tremonti ha assicurato che «i finanziamenti sono giusti, ma se non bastano troveremo altri soldi perché non vogliamo lasciare indietro nessuno». A commento dell’ammonimento di Bossi alle banche, il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, ha detto: «È quello che diciamo tutti da tempo», ma ha sottolineato che «le modalità previste nel decreto per le banche del ministro Tremonti non garantiscono l’afflusso del credito alle piccole e medie imprese. La vigilanza delle prefetture è inefficace e bisogna avere strumenti più cogenti per garantire che i soldi che il pubblico immette nelle banche, finiscano direttamente alle Pmi». «Appena faccio una proposta dicono che è demagogia, non dicono sì o no nel merito», ha lamentato il leader del Pd Franceschini, intervenendo all’assemblea dell’Associazione 'A sinistra'. Dunque Berlusconi sarebbe «un 'signor no', continua a dire solo 'no' senza fare offerte di miglioramento». Bce pensa a nuove azioni Borse, partenza incerta Partenza incerta per le borse europee, in attesa dei dati Usa sull'occupazione. A Londra l'indice Ftse 100 è piatto in rialzo dello 0,01% a 3.530,22 punti. A Milano il Mibtel segna -0,53%, a 11.113 punti. A Francoforte il Dax sale dello 0,10% a 3.699,33 punti e a Parigi il Cac 40 avanza dello 0,13% a 2.566,37 punti.
Nuove azioni della Bce. La Bce sta già adottando azioni non convenzionali di politica monetaria
e guarda anche ad "altre misure" per fronteggiare la crisi. Lo ha assicurato il membro del consiglio esecutivo, Lorenzo Bini Smaghi, intervenendo alla rubrica 'Panorama del Giorno' di Canale5. "Già siamo in una situazione in cui le nostre misure di politica monetaria sono diverse rispetto al passato - ha spiegato - ma stiamo guardando anche ad altre misure per vedere se possiamo intervenire sui mercati, già ora lo stiamo facendo". Sui tempi Bini Smaghi ha chiarito che non sono stati ancora fissati. "Non escludiamo niente", ha poi aggiunto. "La deflazione è un'ipotesi non realistica", ha inoltre detto Lorenzo Bini Smaghi indicando che "nessuna previsione mostra una tendenza di ribasso dei prezzi per i prossimi 2-3 anni". Secondo Bini Smaghi anche le ipotesi di scioglimento dell'euro non sono realistiche. "Lo scioglimento dell'euro è una sciocchezza" afferma Bini Smaghi aggiungendo che le difficoltà di alcuni paesi dell'est europeo sono determinate proprio dal fatto che non sono nella moneta europea. Intanto oggi si annuncia una nuova giornata di passione per le Borse europee, dopo il nuovo tonfo di Tokyo, che stamattina ha chiuso con un pesante -3,50%. Con Tokyo, Hong Kong perde l'1,53%. Shanghai arretra dello 0,8%, Seul cede lo 0,43%. In controtendenza Taiwan che guadgna lo 0,35%. Bce ha tagliato i tassi. La Banca centrale europea ha tagliato il costo del denaro di mezzo punto
percentuale, portando il tasso principale dal 2% all'1,50%, al minimo storico. Lo ha deciso il
Consiglio direttivo dell'istituto centrale a Francoforte. La decisione era ampiamente attesa dal mercato. Analogamente ha ridotto allo 0,50% e al 2,50% anche il tasso sui depositi e quello marginale. Il taglio odierno stabilito dal Consiglio direttivo è il quinto consecutivo da ottobre, quando il tasso di riferimento era ancora al 4,25%, e porta il costo del denaro al punto più basso da quando la Bce ha iniziato a gestire la politica monetaria nel 1999. La mossa della Bce era stata anticipata stamattina dalla Banca d'Inghilterra, che ha anch'essa tagliato i tassi di mezzo punto portandoli al minimo record di 0,50% e ha annunciato che acquisterà asset, soprattutto titoli di Stato, per 75 miliardi di sterline per aumentare la liquidità del mercato. Secondo il presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, le pressioni inflazionistiche di Eurolandia sono diminuite significativamente e le prospettive indicano che
l'inflazione resterà sotto il 2%
per tutto il 2009.

Le Borse ieri sono crollate. Le Borse europee si appesantiscono nel finale di seduta. L'indice
paneuropeo Dj Stoxx 600 arretra del 3 per cento. Tra le piazze del Vecchio Continente affonda Milano che cede quasi il 6% (con una perdita del 5,39% per il Mibtel, del 5,85% per l'S&P/Mib). A Parigi il Cac40 ha perso il 3,96%, a Francoforte il Dax il 5,02%, a Londra il Ftse100 il 3,18%, a Madrid l’Ibex35 il 4,31%, ad Amsterdam l’Aex il 5,2%. A Piazza Affari i principali titoli del paniere in netto calo. Al -11,75% di UniCredit <CRDI.MI> si accompagna il -7,51% di Eni <ENI.MI> a riprova che nessun settore è risparmiato dalla lettera. Apertura negativa per Wall Street con il Dow Jones che segna -1,38% e il Nasdaq -1,58%. Crolla il titolo Gm (-15%) dopo le dichiarazioni alla Sec dell'azienda che ha affermato di non essere certa di garantire la continuità aziendale. I mercati asiatici invece hanno risentito in parte ancora del vento rialzista giunto mercoledì da New York. Chiusura in rialzo per la Borsa di Tokyo dove il Nikkei guadagna l'1,95%. Salgono dello 0,87% Shanghai e del 2,11% Taiwan. In flessione Hong
E perché i grandi non possono fallire?
Paolo Pamini *
Too big to fail. Troppo grandi per fallire. Riferito alle grandi banche, questo argomento
giustificherebbe massicci aiuti statali per evitare disastrosi fallimenti e catastrofiche conseguenze sul sistema economico. Ma sarà davvero il caso? Non sarà invece l’ennesimo trucco retorico per permettere allo statalismo selvaggio un altro solido passo avanti, a detrimento della nostra libertà e della nostra proprietà privata? Ammettiamo che il too big to fail (che chiameremo TBTF) tenga: qual è la dimensione soglia determinante l’aiuto? L’arbitrio risulta chiaro ribaltando i termini del problema: tenendo fisse le dimensioni aziendali, quanto più piccolo è uno Stato, tanto più giustificabile diventa il salvataggio. Se tuttavia lo Stato ha dimensioni troppo piccole rispetto all’azienda, scivoliamo paradossalmente nel too big to be saved (troppo grande per esser salvata). Essendo le estensioni spaziali degli Stati economicamente arbitrarie (perché per lo più determinate dalla storia) ed estremamente eterogenee, risulta chiara l’arbitrarietà del TBTF. Perché mai le banche non dovrebbero fallire? Il fallimento è un’istituzione che tutela la proprietà dei creditori, i quali una volta sparito il capitale proprio aziendale sopportano in prima persona ulteriori perdite, come se fossero diventati azionisti. La liquidazione dell’impresa cerca di evitare che questo avvenga. Il TBTF chiede che le perdite vadano in parte a costo di terzi (i contribuenti) e la domanda è quindi quanto sia giustificabile questa spoliazione coatta di innocenti a vantaggio delle parti direttamente in causa. In realtà, secondo il TBTF, va benissimo che i risparmiatori (creditori della banca) perdano anche i loro interi investimenti. Si vuol invece evitare che si estendano a catena a tutta l’economia i danni secondari causati da un fallimento, per esempio che il traffico dei pagamenti si blocchi. Ma anche qui emergono le classiche contraddizioni dell’interventismo statale. Il TBTF afferma nel suddetto esempio che costi meno salvare la banca piuttosto che ricreare dal nulla un sistema di pagamenti. Se fosse il caso tuttavia, un imprenditore privato interessato ad offrire servizi di pagamento rileverebbe a proprie spese la banca fallimentare per risparmiare risorse rispetto al lancio in proprio di un nuovo servizio di pagamento. Il TBTF non terrebbe. Se invece costasse meno far partire da zero un nuovo sistema di pagamenti, allora pure il TBTF non terrebbe. Si osservi per giunta che il traffico dei pagamenti non è un service publique (e non va come tale salvato con soldi pubblici), perché la storia ha dimostrato che può esser prodotto privatamente in regime di libero mercato. Idem per tutti i servizi finanziari, borse incluse. Salvare con i soldi estorti ai contribuenti qualsiasi impresa fallimentare causa una lunga serie di problemi e va di principio evitato. Impedisce infatti l’entrata nel mercato di nuovi offerenti più disciplinati; sbeffeggia gli attuali concorrenti che hanno scelto politiche più caute; ma soprattutto lancia un disastroso segnale: che lo Stato sia sempre pronto a socializzare le perdite private. Per evitare che altre aziende sfruttino questa opportunità, seguono spesso maggiori regolamentazione e statalismo. Tuttavia, se hanno sbagliato perfino imprenditori, manager ed azionisti che dovevano sopportare personalmente le conseguenze dalle proprie azioni, perché mai dovrebbero esser più coscienti di loro burocrati e politici non addentro alle questioni, che pagano con i soldi altrui? Agli statalisti più convinti piace oggi sottolineare che in alta congiuntura tutti son liberisti ed in recessione tutti invocano lo Stato. Il libero mercato ha quindi palesemente fallito e l’era liberista è finita. Questa tesi dimentica maliziosamente che chiunque, se può, desidera privatizzare gli utili e socializzare le perdite. Grave è quando ciò diventa realmente possibile. In un ordine basato sul ferreo principio della proprietà privata, tuttavia, per forza di cose ognuno si brucia con le proprie mani, e non con quelle dei contribuenti. Il liberismo è rimedio, non causa. Il sistema politico ha invece sempre colto la palla al balzo per socializzare le perdite a costo dei contribuenti ed aumentare così la propria discrezionalità. Con la beffa per giunta di spacciarsi per gran salvatore. Alla luce delle gigantesche manovre finanziarie degli ultimi mesi, dovremmo piuttosto riflettere su quanto in tutto il mondo lo spettro di un’economia fascista (cioè di un capitalismo di Stato) sia già oggi sempre più una realtà. *) economista, ETHZ e Liberales Institut Zurigo 09.03.09 07:39:23
Banca Mondiale, economia globale verso prima contrazione dalla Seconda guerra
mondiale
Finanzaonline.com - 9.3.09/11:34
Un grande passo indietro. E´ quello che con tutta probabilità farà l´economia globale nel 2009. Ad affermarlo è la Banca Mondiale in un documento preparato in vista del meeting dei ministri delle Finanze e dei banchieri centrali del G20 che si terrà il prossimo 24 marzo. Senza soffermarsi sulle cifre, che verranno precisate nel corso delle prossime settimane, il rapporto indica come molto probabile una contrazione della crescita mondiale. Sarebbe la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale nel 1945, con una produzione che potrebbe segnare un calo del 15% a metà anno rispetto allo stesso periodo del 2008 e il commercio globale che potrebbe segnare il maggiore declino degli ultimi 80 anni. Uno scenario che conferma quanto espresso dal direttore del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Khan in un recente commento sulle stime rilasciate dall´Fmi a gennaio che prevedevano una crescita dello 0,5% nel 2009: "Non c´è molta differenza tra 0,5% e 0%". Un´anticipazione, in buona sostanza, di quella che potrebbe essere una sensibile revisione delle previsioni del Fondo che verranno rilasciate in aprile. Di recupero dell´economia mondiale nel 2009, insomma, non se ne parla più con qualche speranza per il 2010. Tuttavia i semi di quel recupero verranno piantati oggi e uno degli errori da non fare, chiarisce il documento della Banca Mondiale, è dimenticare i Paesi in via di sviluppo. "Questa è una crisi globale e necessita di una soluzione globale. Prevenire una catastrofe economica nei Paesi in via di sviluppo è importante per superare la crisi a livello mondiale" ha dichiarato il presidente della Banca Mondiale, Robert B. Zoellick. Secondo il documento elaborato in vista del G20 le Nazioni emergenti rischiano di incorrere in un deficit finanziario tra i 270 e i 700 miliardi di dollari nel 2009 e solo un quarto dei Paesi più vulnerabili hanno le risorse necessarie a prevenire una crescita della povertà e a superare la crisi": "Bisogna intervenire - sono le parole di Zoellick - con investimenti nelle reti di sostegno, nelle infrastrutture, nelle piccole e medie imprese per creare occupazione e evitare agitazioni sociali e politiche". Su 116 nazioni inserite dalla Banca Mondiale nella lista dei Paesi in via di sviluppo, 94 hanno fatto segnare un rallentamento della crescita e 43 hanno, allo stato attuale, elevati livelli di povertà. E i settori più colpiti dal rallentamento sono proprio quelli che maggiore dinamicità avevano manifestato: esportazioni, costruzioni, minerario, manifatturiero. Secondo il vice-presidente della Banca Mondiale, Justin Yifu Lin, "le risorse fiscali che i governi dei Paesi sviluppati stanno iniettando nel sistema e a sostegno dei loro sistemi economici, dovrebbero in parte essere destinate anche ai Paesi in via di sviluppo, in maniera da sbloccare i colli di bottiglia che frenano la crescita per mancanza di finanziamenti e riavviare così una domanda che può avere grandi effetti positivi e essere un elemento chiave per il recupero dell´economia mondiale". Maxi fusione Merck-Schering, nasce un gigante da 47 miliardi di dollari 09/03/2009 16.25 Maxi fusione Merck-Schering. I due gruppi farmaceutici si fonderanno nel quadro di un accordo da circa 41,1 miliardi di dollari, una cifra che garantisce agli azionisti Schering-Plough un premio del 34%. Entrambe con base in New Jersey hanno già annunciato tagli di posti di lavoro. Avranno come guida unitaria l'Ad di Merck, Richard Clark. Secondo i termini dell'accordo, che darà agli azionisti Merck circa il 68% del nuovo gruppo, i soci Schering Plough riceveranno 0,5767 azioni Merck e 10,50 dollari in cash per ogni azione. L'operazione si dovrebbe tradurre in risparmi annuali valutati circa 3,5 miliardi di dollari a partire dal 2011. Merck e Schering-Plough formeranno un gigante da 47 miliardi di dollari e Merck si dice certa di mantenere i suoi attuali rating. Il gruppo ha inoltre confermato il dividendo di 1,52 dollari ad azione. Per finanziare l'accordo, Merck utilizzerà propri fondi per 9,8 miliardi di dollari, mentre 8,5 miliardi saranno forniti da JP Morgan. Merck per rassicurare gli azionisti ha infine confermato gli obiettivi sul fatturato del 2009, che dovrebbe attestarsi tra 23,7 e 24,2 miliardi di dollari e quelle sull'Eps di 2,97-3,17 dollari. L'operazione dovrebbe essere perfezionata nel quarto trimestre del 2009. Il merger è il secondo mega-deal nella farmaceutica Usa dopo quello da 68 miliardi di dollari recentemente annunciato da Pfizer e Wyeth. "La fusione tra Merck e Schering-Plough è strategicamente sensata", a detta degli analisti di Panmure Gordon che ricordano come i due gruppi erano già in partnership per la produzione del farmaco Vytorin e che il Ceo di Schering, Fred Hassan, è noto per essere uno che sigla parecchie operazioni. A Francoforte il titolo Merck è in ribasso del 2,20% a 17,36 euro, mentre Schering avanza del 32% a 17 euro. L'operazione ha alimentato la speculazione M&A su tutti i titoli farmaceutici quotati in Europa. Roche e Novartis sono in rialzo alla Borsa di Zurigo. Gli analisti però sottolineano che si tratta di un rimbalzo, ma che nessuna delle due società può essere vista come un futuro obiettivo di takeover. Roche sale del 2,17% a 131,60 franchi e Novartis dell'1,69% a 40,90 franchi. Brilla a Londra pure il titolo AstraZeneca: avanza del 3,17% a 2.215 pence. Ma per gli analisti di Panmure Gordon la società non appare come un potenziale obiettivo di acquisizione. A piazza Affari, invece, segna un +2,59% a 3,95 euro. Francesca Gerosa
Buffett, guerra economica per Usa ma banche possono uscire da crisi 09/03/2009 Il livello di recessione economica degli ultimi anni ha sorpreso anche Warren Buffett. In un'intervisa alla tv Cnbc, l'Oracolo di Omaha ha infatti dichiarato di essere stato preso in contropiede dall'attuale crisi. "Non solo l'economica è rallentata, ma le persone hanno cambiato il loro comportamento come mai avevo visto prima d'ora", ha affermato il miliardario. Buffett ha inoltre sottolineato che ad oggi il messaggio arrivato dal Governo americano è stato "disordinato" e ha ricordato che Washington giocherà il ruolo più importante nel rimettere in sesto l'economica. Un ritorno all'equilibrio che tuttavia secondo Buffett non avverrà in tempi rapidi. "Non puoi rimettere le cose a posto in un attimo" ha detto il tycoon. Si è infatti rapidamente diffuso un clima di paura e confusione, ha spiegato, che ha finito per innescare notevoli mutamenti di comportamenti da parte dei consumatori. Buffett ha persino riscontrato i segnali di questi mutamenti nei risultati di alcune divisioni del suo gruppo, la Berkshire Hathaway. Da un lato la divisione che si occupa di gioielli è in difficoltà, a riflesso dei tagli delle spese sul lusso, dall'altro avanza il suo gruppo assicurativo Geico, favorito da coloro che cercano di risparmiare sulle polizze auto. Il fianziere americano ha poi precisato che questo cambiamento di abitudini di consumo andrà a beneficio di gruppi come Wal-Mart, mentre peserà su società che producono beni di lusso. E mentre l'amministrazione Obama cerca di risollevare l'economia statunitense dal rallentamento in corso, l'inflazione "ha il potenziale" per toccare livelli peggiori rispetto a quelli raggiunti negli anni '70. Il presidente di Berkshire Hathaway ha aggiungendo che tutto dipenderà "dalla saggezza delle nostre politiche, da come utilizzeremo" la nuova spesa governativa. Inoltre per Buffett i Repubblicani devono sostenere la nuova amministrazione Usa, ma Obama e i Democratici non devono usare la crisi a scapito della controparte. In ogni caso, ha rassicurato l'Oracolo di Omaha, le banche statunitensi dovrebbero essere in grado di "guadagnarsi la via d'uscita" dalla crisi economica, perchè la loro attività è migliorata e il costo dei prestiti è diminuito. L'economia Usa è "cascata da un precipizio" portando gli americani a essere "più preoccupati di quanto non li abbia mai visti", ha proseguito, insistendo sul fatto che gli Usa stanno combattendo una "guerra economica" il cui "comandante in capo" è il presidente Barack Obama. Buffett ha dunque esortato i Repubblicani a unirsi all'agenda economica di Obama e del Partito democratico, ammonendo tuttavia quest'ultimo a non portare avanti progetti che non affrontano direttamente la crisi e che trasmettono un messaggio "confuso" da parte del Governo. "Andrà tutto bene", ha previsto Buffett, nonostante potrebbero volerci anche 5 anni per uscire completamente dalla recessione. Arianna Ferrari
per i servizi segreti la crisi favorisce le infiltrazioni nella finanza Un primo allarme era stato già lanciato dalla Consob e dal comitato parlamentare di vigilanza sui servizi segreti. A causa della crisi economica, dall'estero sono possibili tentativi di scalate ostili nei confronti di società strategiche della Penisola.
Pensioni statali, arriva delega al governo: età unica per uomini e per donne
Stop di Epifani: non è l'ora di alzare i requisiti anagrafici

Bossi avverte: è meglio che siano le donne a scegliere
ROMA (9 marzo) - Fissare l'accesso al pensionamento di vecchiaia nel pubblico impiego in un'unica
età per uomini e donne «tra i 62 e i 67 anni». Lo prevede un emendamento di Cinzia Bonfrisco
(Pdl) alla legge comunitaria che da mercoledì sarà all'esame dell'Aula del Senato. Si tratta dell'atteso emendamento attraverso il quale si potrebbe dare una risposta alla richiesta dell'Europa di innalzare l'età pensionabile delle donne nel pubblico impiego.
L'emendamento della senatrice del Pdl è «una delega al governo per l'attuazione della
sentenza della Corte di Giustizia delle comunità europee» dello scorso 13 novembre. «Il governo è delegato ad adottare - si legge nel testo dell'emendamento - entro 18 mesi dall'entrata in vigore della presente legge» un decreto legislativo che, in attuazione della sentenza della Corte di Giustizia europea, «adegui la normativa che disciplina l'accesso al pensionamento di vecchiaia vigente nel settore pubblico, fissando, per uomini e donne, un'unica età a regime tra i 62 e i 67 anni, prevedendo a tal fine adeguati meccanismi di gradualità e flessibilità».
«Ogni decisione sulle pensioni sarà assunta solo dopo il necessario confronto, anche con
le parti sociali»: questa la posizione espressa dall'Italia nei confronti dell'Ue, come riferito dal
sottosegretario al Lavoro, Pasquale Viespoli. «Sulle pensioni - ha detto Viespoli - bisogna evitare tensioni. C'è un confronto aperto nella maggioranza e apriremo un tavolo con le parti sociali, dal quale speriamo esca al più presto una decisione condivisa».
«Credo che non sia questo il momento di fare nessuna forma di innalzamento dell'età
pensionabile, perché la materia previdenziale l'abbiamo appena sistemata un anno fa e non c'è
bisogno di tornarci». Così il segretario della Cgil, Guglielmo Epifani, ha risposto ai giornalisti che gli chiedevano un commento sull'innalzamento dell'età pensionabile delle donne. Innalzare l'età di vecchiaia delle donne, ha aggiunto, «penalizza queste ultime in un momento in cui la crisi è forte. Quindi - ha spiegato - la cosa migliore è prendere tempo, non fare nulla di tutto questo e passata la crisi mettersi attorno ad un tavolo per vedere qual sia la modalità migliore di uscita dal lavoro».
«Io direi di dare voce alle donne, andrei in piazza, in strada a raccogliere le firme.
Comunque vogliamo sentire cosa vogliono le donne, è meglio che siano le donne a scegliere»: lo
ha detto il ministro delle Riforme, Umberto Bossi, intervistato stamani in tv a Mattino cinque sulla
questione dell'innalzamento dell'età pensionabile per le donne.
Brunetta. La modifica del regime pensionistico del pubblico impiego deriva da una sentenza della
Corte di Giustizia europea e per il ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta in
teoria sono due le leve per conformarsi a quel verdetto: o innalzare l'età del congedo per le donne o abbassare quella degli uomini. Brunetta si è detto poi convinto che le donne del pubblico impiego accoglieranno di buon grado l'innalzamento della loro età pensionabile se i risparmi di questa operazione saranno investiti nei servizi di welfare familiare. «Credo che nessuna donna potrà dire di no - ha affermato il ministro - se si dice loro che tutto quanto sarà risparmiato in spesa pubblica servirà per il welfare familiare: asili nido, carriera, salari. Cosa diversa se si alza soltanto (l'età pensionabile, ndr) e quanto risparmiato verrà messo altrove. Questo sarebbe francamente poco accettabile».
Casini: va considerato il percorso individuale di ogni lavoratrice. L'Udc è favorevole ad una
revisione dell'età pensionabile per le donne «tenendo conto però del percorso soggettivo di
ciascuna lavoratrice, con attenzione per esempio alle maternità o ad eventuali lavori usuranti»: lo ha detto il leader Pier Ferdinando Casini al termine di due incontri con le segreterie di Cisl e Uil. «L'obiettivo - dice Casini - è un sistema flessibile e soggettivo, tenendo presente il curriculum e il
percorso lavorativo delle donne e potenziando allo stesso tempo i servizi sociali e il sostegno alla
famiglia».
Crisi, Ue: «Italia meno colpita, ma ci sono più disoccupati e povertà»
BRUXELLES (8 marzo) - In Italia aumenta la disoccupazione e la poverà anche «estrema», anche
se il paese è meno colpito dalla crisi anche grazie a una stretta creditizia che ha colpito di più gli
altri Stati. E' quanto risulta dal Rapporto congiunto sulla protezione e l'inclusione sociale della che domani sarà sul tavolo dei ministri Ue del lavoro ed il 19 e 20 marzo su quello del Consiglio dei capi di Stato e di governo dell'Ue. «Il rallentamento dell'inflazione porta un certo sollievo alle famiglie a basso reddito - si legge nella scheda Italia allegata al rapporto Ue - ma il rischio di perdita del lavoro e, in misura minore, la restrizione del credito ai consumatori, interesserà le condizioni di vita delle famiglie e dei singoli».
Borsa italiana si sgonfia: ora vale il 17% del Pil
di Antonella Olivieri Eutanasia di una Borsa. La crisi finanziaria che ha duramente penalizzato i listini di tutto il mondo, ha colpito ancora più duro su Piazza Affari. In poco più di otto mesi la rappresentatività della Borsa italiana si è dimezzata, crollando dal 35% al 17% del Pil. Siamo tornati indietro di vent'anni, ai livelli del 1988, quando c'erano ancora le grida e gli agenti di cambio, i fondi comuni stavano muovendo i primi passi e sul mercato azionario si scambiavano 85 milioni di euro al giorno. Una distanza abissale dalle vette toccate nel boom del 2000, quando Piazza Affari era lievitata al 70% del prodotto interno lordo. Com'è che tutta l'élite dell'industria e della finanza della Penisola è arrivata a valere meno del patrimonio immobiliare di una città come Milano? C'è una risposta immediata che riguarda l'ultima settimana di passione, in cui l'indicatore principale del listino milanese, cedendo oltre il 15%, ha ampliato il divario con l'Europa: dall'inizio del 2009 l'S&P/Mib ha perso il 33,74%, quasi il doppio rispetto al -18,98% segnato dall'indice Stoxx continentale. Nelle cinque sedute che hanno inaugurato il mese di marzo è successo qualcosa di molto simile a quanto avvenne un anno fa sui mercati del Vecchio Continente con la liquidazione del portafoglio azionario di SocGen, costretta precipitosamente a chiudere le posizioni per il buco emerso nella sua divisione derivati. Con precisione, di chi sia la responsabilità questa volta nessuno lo sa. In Piazza Affari è partita la caccia al colpevole: chi dice si tratti dell'effetto di consistenti basket azionari di qualche banca anglosassone, chi sospetta delle conseguenze di un'azione di copertura di massa da parte delle compagnie di assicurazione, chi cerca di capire se siano scattate liquidazioni forzose. Ma per ora l'unico fatto certo è che i flussi di vendita sono arrivati soprattutto dall'estero. E questo complica le cose per chi, come la Consob, sta cercando di ricomporre il puzzle. C'è poi una risposta più sostanziale, che riguarda il forte peso dei titoli finanziari sul listino milanese, tuttora vicino al 40% nonostante il crollo delle quotazioni. Un peso attribuibile in particolare alle banche, che contano per quasi il 30% della capitalizzazione complessiva, quando per avere un termine di confronto, a Francoforte rappresentano meno del 4%. È logico che la crisi, partita dalle banche e scaricatasi soprattutto sulle banche, finisca per penalizzare i mercati che sono più esposti al settore. Non è sempre stato così. Utilizzando gli indicatori Mediobanca basati sul flottante, si scopre che dodici anni fa, a inizio '97, la quota delle banche sul totale dei titoli in circolazione era appena del 17,5%. Poi sono arrivate le privatizzazioni - Bnl, Banca Roma, Sanpaolo, Mps - che hanno inondato il mercato di carta bancaria, spingendone il peso, a fine decennio, oltre il 30%. Ma il salto dimensionale più appariscente è attribuibile a un'unica operazione: la fusione UniCredit-Hvb che ha gonfiato l'esposizione al credito del listino milanese fino al record del 37% toccato a fine aprile 2007. Certamente il mercato ha fatto la tara ai plusvalori riconosciuti nell'euforia del consolidamento, che hanno fatto esplodere gli asset immateriali in bilancio. Per esempio, UniCredit in pochi anni ha visto decuplicare gli avviamenti, dagli 1,9 miliardi del 2005 ai 19,1 miliardi del 2007, quando oggi l'intera banca vale in Borsa meno di 11 miliardi. Poste che, nello stesso periodo, si sono addirittura moltiplicate per venti nel bilancio di Intesa-Sanpaolo, da 869 milioni a 17,5 miliardi, contro una capitalizzazione scesa venerdì a 18 miliardi. E gli avviamenti lieviteranno anche nel bilancio 2008 di Mps, per l'onerosa acquisizione di Antonveneta, pagata meno di un anno fa il doppio dei 4,5 miliardi che l'intero gruppo vale oggi in Borsa. Ma il problema è più generale, perché anche l'industria e i servizi non ne sono esenti, come dimostrano i 44 miliardi di avviamenti di Telecom o i 26 miliardi di attivi immateriali di Enel, già prima del completamento dell'operazione Endesa. E, infine, c'è una risposta più strutturale. Negli ultimi anni Piazza Affari è solo scesa nella graduatoria delle Borse continentali. Nel '99 Milano era davanti a Madrid, Zurigo e Amsterdam, con una capitalizzazione intorno ai 730 miliardi. Le stesse identiche dimensioni che aveva a fine 2007, quando però era già stata sorpassata da tutte. E oggi, ai dati aggiornati a venerdì, il valore delle società quotate sul listino milanese si è ridotto a poco più di un terzo, precipitando a 272 Quale il problema? Più di dieci anni di Borsa privata non sono riusciti a convincere le imprese a correre in massa al listino, che sul mercato principale a fine 2008 contava ancora meno di 300 società quotate. Ma se anche gli sforzi di Borsa italiana fossero stati ricompensati, non sarebbe cambiato molto. Nel Paese che ospita il 20% delle Pmi continentali, le medie aziende pesano solo per lo 0,3% della capitalizzazione complessiva: se anche triplicassero di numero non arriverebbero all'1%. Del resto, esaurita l'ondata delle privatizzazioni, all'appello mancano solo pochi grandi gruppi: le Poste e le Fs nel pubblico, Riva, Ferrero o Barilla nel privato. Con l'aria che tira sui mercati, non c'è verso che l'alleanza con Londra possa cambiare il quadro. Timing sfortunato per un passo a lungo meditato che, nell'attuale congiuntura borsistica, non potrà portare i benefici sperati. Con la dote degli anglosassoni il bacino di liquidità si è allargato in termini relativi, ma si è prosciugato in termini assoluti. E l'Aim, il mercato della City dedicato alle Pmi che grande successo ha riscosso negli anni passati, ora è stato esportato anche in Italia: ma di matricole neanche l'ombra. E chissà per quanto ancora. 8 Marzo 2009 Pressing sui «paradisi fiscali» Caccia a 5.600 miliardi euro di Nicola Borzi
Un tesoro stimato tra 4mila e 5.600 miliardi di euro (al cambio attuale). Nascosto, secondo le
ultime stime dell'Ocse, nei forzieri delle banche dei paradisi fiscali. È questa l'enorme
dimensione della posta in palio nel rimpiattino tra le autorità internazionali che cercano di arginare i flussi di capitali "sommersi". L'obiettivo della Ue e del G-20 è quello di far emergere flussi di tradizionali "rifugi". Secondo l'Organizzazione per lo sviluppo economico, che dal 1998 si occupa del dumping fiscale tra Paesi e aggiorna la "lista nera" degli Stati che non recepiscono le norme
internazionali antiriciclaggio, il segreto bancario va regolato e non può evitare l'obbligo di
rispondere a rogatorie internazionali, specie quando si sospetta che i capitali protetti dalla
riservatezza siano frutto di attività criminali, illeciti o evasione fiscale.
La situazione in Europa
In Europa lo stato del segreto bancario, quanto alla regolamentazione e alla sua opponibilità alla
magistratura, è quello indicato nella tabella. Dal 2000 sono sono stati 35 i Paesi che hanno adeguato la loro legislazione alle "norme di comportamento" internazionali. Restano però almeno tre casi (Andorra, Liechtenstein e Principato di Monaco) di Stati individuati come "paradisi fiscali che non cooperano" a far cadere le barriere all'informativa. Anche se l'acqua nella quale nuotano gli evasori fiscali si va progressivamente asciugando, il rimpiattino tra guardie e ladri però non ha fine. Dal 1989 il riciclaggio di denaro è nel mirino della Task force internazionale sui problemi finanziari (Fatf-Gafi), istituita dal G7. Ma quando finalmente un Paese cede alle pressioni internazionali (come accaduto di recente per le Bermuda su pressione degli Usa e, in parte, per il Liechtenstein da parte della Germania e per la Svizzera sempre da parte di Washington) i capitali sono già emigrati in un altro paradiso fiscale.
Il caso del Vaticano
Un caso a parte è quello della Città del Vaticano dove l'unica banca attiva è l'Istituto Opere di
Religione. Lo Ior, che non ha altre filiali, tra i clienti conta dipendenti e membri della Santa Sede, ordini religiosi e benefattori. Rapporti selezionati e non "a rischio" identificati solo attraverso un codice: alle operazioni non si rilasciano ricevute, non esistono assegni intestati allo Ior, depositi e movimenti avvengono tramite bonifici. Bilancio e investimenti dell'Istituto sono noti solo al Papa, al collegio dei Cardinali, al Prelato, al Consiglio di sovrintendenza, alla direzione e ai revisori dei Poiché ha sede in uno Stato sovrano, ogni richiesta di rogatoria allo Ior deve partire dal ministero degli Esteri del Paese richiedente. Finora nessuna rogatoria è stata concessa dal Vaticano, che non risulta aderire a organismi internazionali di controllo antriciclaggio ma partecipa – indirettamente – ai sistemi di pagamento dell'eurozona tramite banche tedesche e italiane. Che il Vaticano non si sia dotato di norme non significa però che la Santa Sede sia "meno virtuosa" di Paesi che le hanno: Stati con norme antiriciclaggio sono di certo meno attenti della Santa Sede nel combattere
Banche, Tremonti: lo Stato deve controllare il credito
«Lo Stato incoraggia e tutela il risparmio, disciplina e controlla l'esercizio del credito». È attorno alla citazione dell'ostituzione («In questo momento il più importante») che si muove l'intervento del ministro dell'Economia Giulio Tremonti, nel suo intervento ad un
congresso sul futuro delle piccole e medie imprese a Busto Arsizio. Il ministro ha citato il testo dell'articolo, chiarendo che il Governo non pretende «che le banche smettano di fare le banche», ma che facciano qualcosa in più con i nuovi strumenti». Secondo Tremonti è necessario salvare le famiglie, il lavoro, le imprese e la parte buona delle banche. «Ma non possiamo salvare i banchieri falliti anche se è quello che si tenta di fare in troppe parti del mondo», ha detto il ministro, aggiungendo con una battuta che le banche dovrebbero agire con la saggezza del "bonus pater familias", quando invece «troppe volte in banca si è pensato più al bonus che alle famiglie».
Mercoledì prossimo, ha spiegato il responsabile dell'Economia, il ministro dell'Interno Maroni
incontrerà tutti i prefetti d'Italia per spiegare il funzionamento dell'osservatorio per il credito, affinchè i cosidetti Tremonti-Bond possano effettivamente raggiungere il loro scopo e finanziare le imprese. «Per evitare che le banche si tengano questi fondi - ha spiegato Tremonti - attiveremo osservatori per il credito, che riguarderanno tutte le banche e non solo quelle che hanno richiesto i bond. Questo non significa - ha spiegato - commissariare le banche, ma significa trasparenza ed evidenza». Il ministro ha chiarito che i prefetti non avranno il potere di dominare sugli istituti di credito: «Al tavolo siederanno industriali, sindacati, camere di commercio ed anche la stampa: non saranno tavoli di scontro ma di incontro in cui si cercheranno soluzioni», ha aggiunto il ministro. Tremonti, infine, ha ribadito la volontà del Governo di preservare «la coesione sociale e conservare l'apparato industriale», ma ha anche ammonito la stampa, d'intesa con il presidente del Consiglio Berlusconi, a non produrre allarmismo: «I media stanno producendo un effetto distorsivo di sfiducia, una delle basi per andare avanti è smettere di farci del male».
Fortis Banque, accordo con Bnp Ora la parola agli azionisti

Nuovo accordo per salvare l'operazione Fortis Banque, con l'acquisto del gruppo belga
da parte di quello francese Bnp Paribas. L'intesa è stata raggiunta la scorsa notte a

Bruxelles, dopo una lunga ed estenuante trattativa tra lo Stato belga e i vertici del
colosso bancario francese, col via libera dato dal governo guidato da Herman Van
Rompuy al termine di una riunione fiume del Consiglio dei ministri.


Del piano originale - respinto lo scorso febbraio dagli azionisti di Fortis - è stato salvato

l'impianto centrale: Bnp acquisterà il 75% di Fortis Banque dallo Stato belga che
attualmente detiene il 100% della prima banca del Paese e ora scenderà al 25 per

cento. Ma il gruppo francese ha ottenuto delle garanzie supplementari nel caso la crisi
finanziaria dovesse acuirsi e lo stato di salute di Fortis aggravarsi ulteriormente, dopo

le perdite per oltre un miliardo di euro registrate nell'ultimo trimestre del 2008:
l'accordo prevede, infatti, che Bnp coprirà la prima parte delle eventuali nuove perdite
fino a 3,5 miliardi di euro, mentre lo Stato belga garantirà le perdite ulteriori per 1,5

miliardi di euro. Inoltre, per i tre anni successivi, Bruxelles metterà a disposizione, se
necessario, altri 2 miliardi di euro, pronta a riportare la sua partecipazione in Fortis al di

sopra del 25 per cento.
L'intesa prevede anche che il gruppo francese acquisisca il 25% delle attività
assicurative della holding Fortis, per 1,375 miliardi di euro. Bnp Paribas, da parte sua,

ha dato garanzie scritte su due punti: la salvaguardia dei posti di lavoro e il
mantenimento in Belgio di uno o più centri decisionali del gruppo. Infine, l'accordo
prevede che a carico della holding Fortis restino asset a rischio per 760 milioni di euro

contro i 4,1 miliardi previsti originariamente. «Si tratta di un accordo vantaggioso per i
risparmiatori, gli azionisti, il personale e lo Stato», ha commentato soddisfatto il

premier belga Van Rompouy. Anche per il direttore generale di Bnp, Baudoin Prot, si
tratta di un'intesa positiva che mette in sicurezza Fortis. Ora la palla passa
all'assemblea degli azionisti di Fortis - tra cui la compagnia assicuratrice cinese Ping An,
primo azionista - che appena un mese fa fece naufragare il precedente accordo.


Piano casa: tutti gli sviluppi possibili
di Redazione
Il piano permetterà di aumentare del 20% le cubature dei fabbricati e "rottamare" le abitazioni
realizzate prima del 1989, abbattendole e ricostruendole con dimensioni incrementate del 30%
Milano - Chiudere il terrazzo o sopraelevare il soffitto dell’ultimo piano per ricavare una stanzetta
in più. Una richiesta che oggi si scontra con regole condominiali e norme del codice civile e che
nella maggior parte dei casi finisce per essere rigettata. Ma che potrebbe diventare possibile con il
Piano per l’edilizia annunciato dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e che approderà già
venerdì al Consiglio dei ministri.
Aumenti cubature del 20% Il piano, secondo quanto trapelato fino ad ora, permetterà di
aumentare del 20% le cubature dei fabbricati e "rottamare" le abitazioni realizzate prima del
1989, abbattendole e ricostruendole con dimensioni incrementate del 30% (che potranno salire al
35% se si fa ricorso alle tecniche di bioedilizia o di energie rinnovabili).
Modifiche anche nei condomini Questi ampliamenti, ha detto il sottosegretario alle
Infrastrutture con delega alle politiche abitative Mario Mantovani, saranno possibili anche
all’interno di un condominio, previo però il via libera dell’assemblea condominiale. Una novità che avrebbe un impatto rilevante, considerato che gli appartamenti costituiscono una buona fetta del patrimonio immobiliare italiano e per essi l’aumento di cubatura si scontra con una normativa
civile e condominiale che non lo permette.
Quante sono le case in Italia Dal censimento del 2001 risulta che le abitazioni in edifici ad uso
abitativo sono complessivamente 27.268.880 (i soli edifici ad uso abitativo sono 11.226.595), di cui il 25,3% (6.902.088) sono edifici con un’unica abitazione, presumibilmente case singole, il 16,7% sono edifici bifamiliari (4.560.856), mentre gli edifici con più di 3 abitazioni sono il restante 57,9%. Anche la "rottamazione" degli edifici costruiti oltre 20 anni potrebbe interessare molte abitazioni: secondo i dati dell’Uppi, le case che rientrano in questa fascia sono una percentuale intorno al 50-70% a livello nazionale, e del 70% solo nelle grandi città. Ecco cosa è possibile fare oggi per ampliare la propria abitazione e cosa potrebbe cambiare con il Piano per l’edilizia, sulle cui linee sta lavorando il Governo:
Appartamento in condominio Oggi è possibile modificare parti della propria proprietà, purchè
queste opere non ledano i diritti degli altri condomini, creino problemi di tipo strutturale o
estetico: a regolare la materia è il Codice civile, che (art. 1122) consente opere che «non rechino danno alle parti comuni dell’edificio»; vieta (art. 1120) le «innovazioni che possano recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato, che ne alterino il decoro architettonico o che rendano talune parti comuni dell’edificio inservibili all’uso o al godimento anche di un solo condomino»; non consente (art. 1127) la sopraelevazione "se le condizioni statiche dell’edificio non la consentono" o se ne "pregiudica l’aspetto architettonico". Con le nuove norme allo studio, sarà possibile ampliare la cubatura dell’appartamento del 20%, previo il via libera da parte del condominio. Non ci sono al momento dettagli sulle aree che potranno essere coinvolte
dall’ampliamento.
Casa singola In un’abitazione monofamiliare già oggi è possibile, previo l’ottenimento del
permesso di costruzione, alzare l’edificio di un piano, senza limiti di cubatura, e anche aggiungere una parte in orizzontale, sempre che non sussistano norme precise sull’edificabilità del terreno. Con le nuove misure allo studio si potrà accrescere del 20% il volume dell’immobile o di una sua parte anche realizzando un manufatto aggiuntivo purchè di carattere accessorio. Per le case costruite prima del 1989 e che non siano sottoposte a vincoli architettonici, sarà possibile abbattere e ricostruire l’edificio anche su un’area diversa e con una cubatura più ampia del 30% o
del 35% se si farà ricorso alla bioedilizia o all’utilizzo di energie rinnovabili.
Euribor ai minimi, mutui sotto il 5%
di Redazione Tassi giù e risparmi sulla rata fino a oltre 400 euro mensili. È l’effetto Bce, scattato dopo che le massicce iniezioni di liquidità, unite al taglio dei tassi di riferimento che giovedì sono scesi al minimo record dell’1,5%, hanno provocato una caduta verticale dei tassi di mercato Tassi medi sui mutui sotto il 5% e risparmi sulla rata fino a oltre 400 euro mensili. È l’effetto Bce, scattato dopo che le massicce iniezioni di liquidità da parte dell’Eurotower, unite al taglio dei tassi di riferimento che giovedì sono scesi al minimo record dell’1,5%, hanno provocato una caduta verticale dei tassi di mercato. Discesa che ormai è evidente anche sulle rate sui mutui, tipicamente all’Euribor trimestrale, il cui tasso medio, a gennaio, è sceso ai minimi dall’ottobre del 2006 secondo il supplemento al Bollettino statistico di Bankitalia, toccando sui nuovi prestiti il 4,78% dal 5,08% di dicembre. Certo, la crisi del credito si fa sentire anche in Italia: le sofferenze (i crediti che le banche non riescono a riscuotere da famiglie e imprese), sempre a gennaio, sono aumentate del 2,82% a 26,768 miliardi di euro dai 26,032 miliardi di fine 2008. Proprio in Italia, peraltro, il taglio dei tassi di Eurolandia all’1,5% deciso giovedì scorso dalla Bce ha portato a un costo del denaro che non era mai stato così basso. Chi vuole contrarre un mutuo in Italia, oggi, o chi deve pagarne uno erogato in passato, lo fa a condizioni molto più vantaggiose rispetto a pochi mesi fa. Secondo una simulazione di Mutui Online, considerando il tasso Euribor all’1,76% raggiunto la scorsa settimana, rispetto ai picchi di ottobre (quando lo stesso tasso viaggiava al 5,39%) c’è un risparmio che va dagli oltre 200 euro mensili sulla rata di un mutuo da 100.000 euro, fino ai 325 euro mensili per i mutui trentennali da 150.000 euro. Su un mutuo da 200.000 euro si arriva a un risparmio di 394 euro mensili se il finanziamento ha durata ventennale, fino ai 433 euro se di durata trentennale. E c’è ancora spazio di discesa, visto che nel frattempo l’Euribor a tre mesi è continuato a scendere fino a raggiungere, oggi, l’1,70%, nuovo minimo storico che promette un ulteriore abbassamento
Le considerazioni del Consiglio Epsco al Consiglio Europeo
Sei milioni di senza lavoro: "Recessione senza precedenti"
Allarme Ue sulla disoccupazione
Almunia: "Ripresa solo nel 2010"

ROMA - Nessun segno di miglioramento. Cifre e previsioni concordano sulla difficoltà del
momento e sui tempi lunghi che serviranno per uscire dalla crisi economica. E' di oggi l'allarme disoccupazione lanciato dal Consiglio Epsco al Consiglio europeo di primavera e le previsioni, senza un filo ottimismo, fatte dai vertici europei.
Almunia: "Ripresa a lungo termine".
"I rischi al ribasso sono aumentati per via delle condizioni
del mercato del credito e per le condizioni dell'economia reale". Il commissario per gli affari economici, Joaquin Almunia, non lascia spazio all'ottimismo. "I dati sulla fiducia sono molto negativi. Siamo fiduciosi che i pacchetti di misure avranno effetti positivi, ma ancora è troppo presto per percepirli". Parole accompagnate da una data: il 2010. Anno in cui si potranno vedere i primi segni di ripresa. "I rischi al ribasso per la crescita sono aumentati - continua Almunia - perchè da una parte i flussi di credito restano bassissimi e dall'altra abbiamo bruttissime cifre sulla produzione industriale e bruttissime notizie sul fronte della ripresa della fiducia sui mercati. Se i piani di sostegno alle banche avranno effetti positivi è ancora presto per poterlo dire".
Juncker: "Netto degrado".
Cifre che trovano conferma anche nelle parole del presidente
dell'Eurogruppo, Jean-Claude Juncker: "C'è un netto degrado della situazione economica rispetto
al mese di febbraio e nessun indicatore ci lascia pensare a un miglioramento imminente. La recessione è profonda e ci riporta all'inizio degli anni '90".
Epsco: "Allarme disoccupazione". Una "recessione senza precedenti che potrebbe causare altri
6 milioni di disoccupati entro il 2010" e produrre "gravi conseguenze sociali per le famiglie e le persone". Sono le considerazioni del progetto di documento del "Comitato per l'occupazione e per la protezione sociale", contenente i messaggi chiave del Consiglio Epsco al Consiglio europeo di primavera. Nelle ultime stime Ue si era parlato della perdita di 3,5 milioni di posti di lavoro solo per il 2009 e di un tasso di disoccupazione per la zona euro pari al 9,25%.
Prevenire la perdita dei posti di lavoro. "In molti stati membri - si legge nel documento
dell'Epsco che sarà approvato oggi dai ministri del Lavoro - la maggiore flessibilità consente ora alle imprese di adeguare rapidamente la propria capacità produttiva. Ma il rapido aumento della disoccupazione è al centro delle preoccupazioni dei cittadini dell'Ue per incentivare l'occupazione, prevenire e limitare la perdita dei posti di lavoro e le ripercussioni sociali sono necessarie misure tempestive, temporanee e mirate".
Le linee d'azione. Per prevenire e combattere la disoccupazione "senza intaccare le riforme del
mercato del lavoro" il Consiglio Epsco esorta gli Stati membri a dare precedenza immediata ad
alcune linee d'azione. Innanzi tutto "evitare le misure che favoriscono il ritiro prematuro dalla vita
lavorativa, quali programmi di prepensionamento o limiti d'età per le opportunità di formazione, in modo tale da mantenere e aumentare la partecipazione al mercato del lavoro". Non solo si ribadisce, come più volte sollecitato dall'Ue in particolare all'Italia, di "affrontare l'adeguatezza e la sostenibilità a lungo termine dei sistemi pensionistici con riforme adeguate", incluso il raggiungimento dell'obiettivo di Lisbona di un tasso di occupazione dei lavoratori più anziani pari al 50% e il miglioramento della posizione dei percettori di salari bassi, anche in un periodo di recessione.
"Flessicurezza". Il Consiglio ancora indica come sia necessario "sostenere l'accesso
all'occupazione e agevolare l'ingresso nel mercato del lavoro e la mobilità al suo interno per abbreviare i periodi di disoccupazione e aumentare la partecipazione sia delle donne che degli uomini". I principi comuni di "flessicurezza" offrono "utili orientamenti per modernizzare ulteriormente i mercati del lavoro". E' prioritario "rafforzare l'accesso alla formazione e alle misure attive del mercato del lavoro per disoccupati, lavoratori a rischio di licenziamento e altri gruppi vulnerabili affinchè restino attivi, sia migliorata la loro occupabilità e sia assicurata la loro disponibilità ad approfittare di nuove opportunità professionali create dalla ripresa".

Verso un'economia a basse emissioni di CO2
. Occorre infine "sostenere l'occupazione e la
creazione di posti di lavoro con misure intese a stabilizzare l'economia, promuovere la transizione verso un'economia a basse emissioni di CO2 e potenziare gli investimenti nella ricerca e sviluppo nonché nei settori a rapida crescita". E dare la precedenza "agli investimenti nelle infrastrutture pubbliche capaci di rafforzare la struttura economica e creare rapidamente nuovi posti di lavoro".
Impegno per l'inclusione sociale. Un capitolo è dedicato anche al maggiore impegno per
l'inclusione sociale e gli obiettivi della protezione sociale. In questo contesto gli Stati membri dovrebbero puntare soprattutto a "perseguire la riduzione della povertà e la coesione sociale con strategie globali rafforzate per combattere e prevenire la povertà e l'esclusione sociale dei bambini, inclusa una maggiore offerta di strutture di assistenza all'infanzia di qualità, accessibili anche economicamente, e delle persone con disabilità, la comparsa di nuovi gruppi a rischio di esclusione, quali i giovani, e nuove situazioni di rischio, compreso il sovraindebitamento". Occorrono poi sforzi per combattere la mancanza di domicilio fisso "quale forma estremamente grave di esclusione, fronteggiare i molteplici svantaggi a cui sono confrontati i Rom e la loro vulnerabilità nei confronti dell'esclusione sociale e promuovere l'inclusione sociale dei migranti". Bisogna infine migliorare l'efficienza dei servizi sanitari e ridurre le disparità in campo sanitario, fornire qualità nelle cure a lungo termine, assicurare un invecchiamento nella salute e nella dignità.
Una roulette senza fine L’ANALISI
Un nostro amico, che pure è un broker molto navigato, confessa: "A dicembre pensavo che il peggio fosse passato, e ho comprato. Siamo all’inizio di marzo e ho perso il 30%. Maledetta la mia fretta". Oggi con i mercati va così: non puoi mai essere sicuro di niente. Quando pensi che il peggio sia passato, invece te lo ritrovi davanti la mattina dopo, magari proveniente da Tokio dove nel corso della notte la Borsa è crollata un’altra volta. Oppure arriva da Wall Street, dove la General Motors (di fatto già fallita) per farsi dare dei soldi da Obama minaccia di portare davvero i libri in tribunale: e ovviamente tutti si spaventano e vendono qualsiasi cosa abbiano in portafoglio. La scena finanziaria, cioè, non è mai stata così terremotata e instabile, inafferrabile. E’ per questo che sarà interessante vedere, fra un po’, i bilanci 2008 delle banche e delle assicurazioni italiane. Si tratta quasi di estrazioni al lotto, impossibile prevedere che cosa ci "metteranno dentro". Secondo gli esperti (ammesso che possano esistere esperti in una simile sfuggente materia) bisogna fare una distinzione fra banche e assicurazioni. Entrambe, si dice, dovrebbero presentare dei conti da paura, ma con qualche differenza interessante. Le banche, ad esempio, a questo punto dovrebbero tirare fuori tutto, cioè tutto il marcio che hanno messo in portafoglio negli anni scorsi nel tentativo di fare molti soldi in fretta e di presentarsi come campioni del profitto. C’è però qualche precauzione da considerare. Qualcuno potrebbe essere tentato di non considerare proprio "tossici" (cioè di valore zero) dei titoli che oggi stanno ancora in piedi e che magari saranno tossici dopodomani. E poi c’è tutta la questione del valore degli asset conquistati a Est negli anni passati. Allora era sembrata, a tutti, un’ottima strategia quella di andare a comprare banche in quei territori, fatti di gente molto giovane, di redditi bassi e di tassi di crescita fortissimi. Una sorta di terra promessa a due passi da casa. Oggi, quegli investimenti sono un incubo e nessuno sa dire se valgono ancora qualcosa e, eventualmente, quanto valgono. Sarà interessante vedere a quanto li metteranno in bilancio. E che cosa resterà, quindi, alla fine. Anche perché nei conti delle banche dovrebbe esserci il crollo delle commissioni sulle operazioni di Borsa, visti i tempi e gli andamenti dei mercati. E dovrebbe esserci, anche, l’aumento vertiginoso dei crediti andati a male, in sofferenza, vista la congiuntura e le difficoltà di tante imprese. E’ vero che l’opinione pubblica, ormai, non si aspetta certo grandi risultati di bilancio dalle banche, ma potrebbero anche esserci delle sorprese. E molto forti. Diverso, ma nemmeno moltissimo, il caso delle compagnie di assicurazioni. Finora le assicurazioni italiane se ne sono state buone e quiete, come dentro a un porto riparato dalla tempesta. Probabilmente sono state più prudenti di certe loro consorelle straniere (in dissesto cronico). Ma forse qualche sorpresa è in arrivo anche da quella parte. Le assicurazioni sono, per definizione, soggetti pieni di soldi (i premi incassati ogni mese o ogni anno dagli assicurati) e quindi sono anche dei grossi investitori. E nel 2008, su qualunque cosa abbiano investito, non possono che aver perso dei soldi, molti soldi. Le case sono andate giù, e andranno ancora giù, in tutto il mondo. E qui, a essere onesti, ci sarebbe solo da mettere in bilancio delle minusvalenze da film dell’orrore. E’ vero che nessuno ha bombardato niente e che le case sono sempre lì, con i loro tetti, finestre e balconi, ma valgono molto meno. E non è prevedibile una ripresa dei prezzi in tempi rapidi. Anzi. Poi c’è il capitolo, angoscioso, degli investimenti finanziari. Per quello che se ne sa, gli assicuratori italiani (tipi prudenti e innamorati dei loro stipendi e dei loro bonus) non dovrebbero essersi lanciati avidamente nell’acquisto di derivati e di robe del genere. Dovrebbero essere stati sul sicuro, anche a costo di non guadagnare niente. Ma non si puoi mai dire. Qualcuno, probabilmente, avrà allungato le mani e avrà cercato di portare a casa (per la sua compagnia) qualche guadagno extra e facile. Adesso, bisognerà vedere se avrà il coraggio di fare outing o se cercherà di nascondere la mela marcia dentro i conti, in mezzo a tutte le altre poste. Le banche italiane, per essere chiari, qualche verità l’hanno detta. Le assicurazioni no. Tutte zitte e blindate. Infine, c’è il capitolo degli investimenti di Borsa veri e propri. Qui i crolli, a seconda dei momenti di ingresso e delle piazze scelte, sono semplicemente di tipo cosmico: si va dal 60 al 95 per cento. E, ancora una volta, si tratta di vedere in che misura le compagnie di assicurazioni vorranno dire la verità e esporre chiaramente la situazione. Anche perché non c’è da sperare in una ripresa dei corsi tanto veloce. In conclusione, i bilanci in arrivo saranno quasi certamente i peggiori mai visti da questa generazione di investitori. C’è solo da sperare che almeno siano veritieri e conclusivi. Nel senso che dentro ci sia "tutto" il materiale tossico in circolazione. Tanto nessuno si aspetta niente da questi conti: meglio allora che dentro vi vengano scaricati tutti gli errori fin qui commessi. In sostanza, fra marzo e giugno (la stagione dei bilanci annuali) per gli investitori e i risparmiatori si apre una sorta di via crucis: ogni giorno una croce, ogni giorno un chiodo sulla bara dei loro soldi. Possono solo consolarsi pensando che a nessuno è andata bene. Nemmeno i maghi della Borsa sono riusciti a evitare di essere presi in contropiede. Persino l’ "oracolo di Omaha", Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo e uno dei finanzieri più attenti, ha dovuto conteggiare perdite record. Per non parlare delle grandi banche d’investimento che si sono suicidate, trascinandosi dietro il mondo. In queste condizioni il ragionier Rossi e il geometra Bianchi possono solo sperare che "questo" sia il momento peggiore e che poi, da qualche parte, spunti un po’ di sole o, almeno, un po’ di luce.
"Ecco le regole per salvare delle banche" L’INTERVENTO

CHARLIE MCCREVY*
Alcuni affermano che la bufera della crisi finanziaria stia diminuendo di intensità. Non ne sono altrettanto sicuro. I tassi dei prestiti interbancari stanno lentamente scendendo, ma sono ancora molto più alti di quello che dovrebbero essere; i prezzi delle azioni continuano ad essere estremamente instabili; le condizioni dei mercati globali restano fragili. Cosa ancor più preoccupante, stiamo assistendo alle conseguenze della crisi sull’economia reale di tutta Europa, degli Stati Uniti, e ancor più lontano. Il Pil è in forte contrazione. La produzione industriale sta scendendo a ritmi da record. Lungo quale strada procedere, dunque? Dobbiamo ripristinare la fiducia: questa è la vera, unica sfida per l’Europa, la Commissione Europea, i leader del pianeta e l’industria dei servizi finanziari per i prossimi cinque anni. Non sarà facile. Ci occorrono mercati finanziari sani, senza i quali non potremo risollevarci. Dobbiamo garantire la trasparenza e un’adeguata gestione dei rischi, obiettivi per realizzare i quali ci sono delle misure tra le mie proposte sui requisiti di capitale. Ci servono un’adeguata supervisione e un’appropriata gestione delle crisi, motivo per il quale sono in procinto di presentare un documento riguardante gli interventi immediati e sono impaziente di ricevere il frutto dell’analisi del gruppo di massimi esperti che lavorano sotto la guida di Jacques de Larosière, che sarà presentato a giorni. Infine, ci serve la collaborazione di tutta la comunità internazionale, così nei periodi prosperi come in quelli cupi. Dobbiamo riformare le istituzioni finanziarie internazionali e i meccanismi di sorveglianza. Le attuali regolamentazioni europee e globali sugli standard contabili e sui requisiti di capitale, per esempio, hanno accentuato il caos nei mercati. Le regole, in tutta franchezza, sono eccessivamente procicliche. Quando la liquidità di mercato si riduce, come è ora il caso, le decisioni di vendita basate sul criterio del mark to market acutizzano la spirale verso il basso, provocando ulteriori liquidazioni forzate, e tutto ciò contribuisce ancor più al declino dei valori. È per questa ragione che di recente ho proposto un provvedimento mirante a consentire maggiore flessibilità nelle valutazioni mark to market e a facilitare il trasferimento degli attivi dai portafogli di trading ai portafogli bancari. In passato molte banche hanno tratto vantaggio da regole dinamiche e flessibili: nella turbolenza attuale, per esempio, le banche spagnole ne hanno beneficiato in modo particolare, e mi piacerebbe vedere un ritorno ad esse su più vasta scala. Un provvedimento che imponga alle banche più elevati requisiti di capitale nei periodi prosperi nell’ottica di poter permettere che si assottiglino in quelli sfavorevoli sarebbe del tutto sensato, sia dal punto di vista microeconomico che da quello macroeconomico. Frenerebbe un’eccessiva espansione del credito nei periodi di boom, riducendo al contempo il rischio di fallimento degli istituti bancari o di un’eccessiva riduzione del capitale nei periodi di recessione, e oltretutto consentirebbe alle banche di erogare prestiti per innescare una ripresa sostenibile. Dovremmo pervenire a un accordo internazionale su una riforma di questo tipo, e mi adopererò per arrivarci. Ma non è l’unico aspetto da rivedere. Non mi ha mai convinto il fatto che i requisiti di capitale sul portafoglio di trading possano essere più bassi di quelli richiesti sui portafogli bancari. Quando la liquidità si prosciuga, gli scambi diventano impossibili senza uno sconto molto ingente. Certo, le probabilità di default possono essere inferiori per i portafogli di trading, in relazione al fatto che gli asset sono conservati per un periodo di tempo inferiore. Tuttavia, l’erosione complessiva del capitale in caso di default è la medesima, indipendentemente dal fatto che gli attivi figurino per un giorno soltanto nel portafoglio trading o per dieci anni di fila sul portafoglio prestiti. Si rendono pertanto necessarie e saranno proposte quanto prima possibile regole molto più rigide per i rischi legati ai portafogli trading. Per quanto concerne i modelli per la valutazione del rischio, ormai abbiamo la prova inconfutabile che sono estremamente utili quando hanno scarsa importanza e del tutto inutili quando ne hanno molta. Sono convinto che ci voglia una soglia massima per la leva applicata nelle attività delle banche, indipendentemente dalla ponderazione del rischio degli attivi o dalle quantificazioni dei valori a rischio. Il fatto che il rapporto tra capitale e attivo totale sia oggi mediamente nell’ordine del 3% ci dice tutto ciò che ci occorre sapere sull’inadeguatezza dell’attuale sistema prociclico di regole sui requisiti di capitale. Nel clima attuale è impossibile dare una stima effettiva del valore di molti asset finanziari con una precisione del 3%, e l’eccessiva leva finanziaria, che ha caratterizzato molti bilanci bancari in questa crisi deve essere corretta e non consentita in futuro. Tutto ciò deve rientrare nella revisione delle regole sul fabbisogno di capitale delle banche. Dobbiamo saper trovare il giusto equilibrio tra regole che evitino i fallimenti dei quali siamo stati testimoni e la necessità di avere banche e mercati dinamici e innovativi. Ciò che invece non ci serve affatto sono le gran quantità di rapporti che arrivano sui tavoli dei controllori, i quali paiono dedicare molte risorse a far sì che arrivino nei tempi previsti e assai meno a interpretarne correttamente il contenuto e a tirarne le debite conclusioni. Infine, non possiamo permetterci di diventare schiavi dei lobbisti meglio pagati e più persuasivi. Dopo tutto sono proprio molti di quegli stessi lobbisti ad essere riusciti in passato a convincere i legislatori a inserire clausole e postille che hanno contribuito sostanzialmente a rendere il sistema così permissivo, tanto da consentire la creazione dei rischi sistemici per i quali adesso i contribuenti sono obbligati a pagare. Copyright: Project Syndicate, 2009 www.projectsyndicate.org Traduzione di Anna Bissanti "Flessibilità, risorse umane e welfare sono gli assi per superare la tempesta" l’intervista
«La Slovacchia è un paese piccolo e giovane ma molto dinamico. Ce la farà anche ad affrontare la grande crisi internazionale». E’ il parere dell’ingegner Paolo Ruzzini, l’italiano che è oggi tra i maggiori protagonisti del grande boom slovacco. Direttore generale e presidente di Seas, l’operatore energetico slovacco controllato dall’Enel, Ruzzini ha un punto di osservazione di primo piano sui rischi e le chances del miracolo di Bratislava. «Enel è entrata su questo mercato perché si è presentata l’opportunità d’un programma di privatizzazione del settore elettrico. Privatizzazione della distribuzione ma poi anche della produzione di energia. Realizzata qui prevalentemente con il nucleare ma anche con importanti presenze nell’idroelettrico e nel termico. Enel era già operante nell’area, con presenze in Bulgaria e Romania». Quali punti di forza avete valutato di questo sistemapaese? «E’ un paese che ha buone chance. Un sistema fiscale semplificato che attira investimenti. Un’amministrazione rapida ed efficace. Una lunga tradizione di scuole tecniche università che sforna risorse umane qualificate in tutti i settori. E’ valso anche per noi, nell’energia convenzionale e nel nucleare abbiamo trovato fin dall’inizio competenze di eccellenza e una grande recettività». Ma la crisi internazionale quanto minaccia tutto questo? «La Slovacchia è esposta alla crisi perché l’auto è il suo punto di forza e perché l’export incide sull’economia per l’85%. Ma dispone per fortuna di sufficiente flessibilità sociale e di ammortizzatori sociali, che il governo sta anche rafforzando. Difende il potere d’acquisto delle famiglie e l’occupazione. E punta a nuove aree di investimento: le infrastrutture, in cui c’è ancora molto da fare. Noi in questo siamo prima fila per la centrale nucleare di Mochovce». Le vecchie centrali slovacche però secondo l’Ue sono poco sicure. E’ un problema serio per voi? «L’Unione Europea ha posto criteri severi. I reattori più anziani a Bohunice sono stati bloccati per richiesta Ue. I nuovi impianti in cui noi siamo presenti sono allineati agli standard Ue. Per noi il nucleare slovacco è una palestra importante». Non vede il pericolo di un disinvestmento di gruppi occidentali in Slovacchia? «Noi facciamo megainvestimenti come Mochovce, 2 miliardi e mezzo. E’ una permanenza strategica di lungo periodo, credo lo stesso sia per gli altri grandi gruppi». Ma quali sono gli aspetti negativi della Slovacchia? «Una struttura industriale dipendente dall’export. Il governo ha già impostato bilanciamenti: investire nella logistica, trasporti, autostrade, ferrovie. Ci sono ancora sbilanciamenti tra l’Ovest, Bratislava prospera come Vienna, e l’est rurale completamente diverso». Quali sono state le sue prime e più importanti impressioni da quando lavora in Slovacchia? «Mi ha colpito il livello d’accettazione di diverse culture economiche, una predisposizione creata anche dall’alto livello scolastico. Molti poi qui viaggiano e vogliono vedere il mondo pur restando attaccati ai loro valori. Hanno montagne stupende, ma il loro ceto medio ama per curiosità le settimana bianca a Madonna di Campiglio o in Austria, Svizzera o Francia. La struttura burocratica può migliorare, ma se la confrontiamo all’Italia… ma nel complesso la Slovacchia ci dice due cose: primo, che la forza della Slovacchia ci conferma che la forza dell’Europa è nella sua molteplicità e diversità culturale. Secondo, che un dinamismo alla slovacca può consentirci di trasformare questa grande crisi in occasione di grande rinnovamento per aiutare il futuro». (a.t.)
La trappola della Robin Hood Tax CREDITO E FISCO/ PROPRIO MENTRE LE AZIENDE
STANNO PER CHIEDERE GLI AIUTI SOTTO FORMA DEI TREMONTI BOND SCOPRONO DI

DOVER PAGARE AUMENTI D’IMPOSTA CHE POSSONO ESSERE MOLTO ALTI
ADRIANO BONAFEDE
In questi giorni gli addetti alla contabilità delle banche sono molto indaffarati: devono mettere a punto il bilancio 2008 che sarà presentato nelle prossime settimane. Più o meno tutti quanti, quando arrivano a calcolare l’importo da destinare al fisco, non vogliono credere ai propri occhi. E rifanno i conti, sicuri di aver preso un abbaglio. Ma non è così: i primi calcoli sono quelli giusti, quest’anno ci sarà un aggravio di imposizione. E il bello è questo: non sarà proporzionale per tutti, ma molto diverso da caso a caso. Alcuni istituti saranno per così dire ‘premiati’ con un incremento dell’aliquota fiscale di ‘soli’ 23 punti percentuali (che non è poco, comunque), ma in alcuni casi si arriverà anche a 15 o 20 punti in più. Si tratta di simulazioni preventive, calcolate sui bilanci del 2007, che erano peraltro molto diversi da quelli del 2008. Ma è comunque un’indicazione importante. Naturalmente chi sta per pagare 15 o 20 punti di aliquota fiscale in più è, per così dire, leggermente arrabbiato. Gli altri, invece, la prendono con più filosofia. Ma cos’ha creato questo improvviso sbalzo di aliquota? È arrivato al pettine il nodo della Robin Hood Tax voluta dal ministro Giulio Tremonti su banche e petrolieri. La Robin Hood Tax, quella che toglie ai ricchi e dà ai poveri. Ma le cose sono molto cambiate dalla scorsa estate. Le bolla petrolifera e quella del credito si sono sgonfiate. E ora i banchieri sbatacchiati dallo tsunami finanziario che ha ridotto ai minimi termini le quotazioni azionarie, spazzato dalla faccia della terra alcune grandi istituzioni plucentenarie (per fortuna non italiane), e costretto qualche Stato a entrare nel loro capitale sembrano i parenti poveri di quei ricchi signori in bombetta con cui sono soliti essere rappresentati. La situazione italiana è stata finora meno peggiore di quella inglese o americana, tanto per fare degli esempi. Ma proprio adesso gli istituti di credito stanno per chiedere il sostegno dello Stato approfittando dei Tremonti Bond. I Tremonti Bond, l’altra faccia, quella buona, del ministro. Che con una mano dà e con l’altra toglie. Forse se n’era già scordato, ma con la Robin Tax dovrebbe portare a casa più di 1 miliardo di euro (e alla prova dei fatti potrebbe essere di più). Poi ne restituirà fino a una dozzina sotto forma di bond (sempre facendosi pagare un lauto tasso d’interesse, però). Ma le banche non sono contente. Un malumore inconfessato serpeggia un po’ dappertutto, e in qualche caso diventa quasi risentimento. Persino l’Isae, l’Istituto di studi e analisi economica, ha dovuto riconoscere che ormai la bolla speculativa non c’è più. In questo nuovo scenario, la Robin Tax può avere sulle banche degli effetti perversi: «Molto dipende dalla struttura organizzativa dell’impresa dice Laura Zaccaria, responsabile Funzione Vigilanza, Bilancio e Tributario dell’Abi. Sono più colpite le banche che fanno raccolta diretta e che hanno una gran quantità di interessi passivi. Meno quelle che hanno una composizione equilibrata degli attivi e dei passivi». Il giudizio è secco: «La Robin Tax sconta un problema di costruzione: avendo una indeducibilità forfetaria e secca colpisce indistintamente, è il prezzo della semplificazione. Ma il fisco dovrebbe essere neutrale rispetto all’organizzazione di una banca». Il motivo per cui la Robin Tax colpisce alla cieca è che contano solo gli interessi passivi (in particolare conta la loro indeducibilità al 4 per cento), mentre quelli attivi non contano mai: «Chi ha ricavi altissimi spiega Zaccaria ha la stessa penalizzazione di chi ha ricavi più bassi, a parità di interessi passivi». Ora, chi si trova ad avere ricavi più bassi può farlo per due motivi: o è inefficiente (e in questo caso la Robin Tax aiuterebbe a spazzare via chi non si dimostra all’altezza della sfida competitiva) o sta tentando di portare al massimo la spinta concorrenziale. È quello che stanno facendo molte banche straniere. Dunque la Robin Tax colpisce chi fa concorrenza abbassando i margini: una materia, questa, che l’Antitrust non sembra aver preso in considerazione fino a questo momento. E comunque, la norma spinge ad aumentare i ricavi, anche attraverso una crescita delle commissioni a carico dei clienti: un effetto contrario a quello che servirebbe nel bel mezzo di una recessione com’è quella che stiamo vivendo. Proprio le banche estere sembrano particolarmente colpite dalla Robin Tax. Ing, Barclays, Dexia, tanto per fare qualche nome. L’Aibe, l’Associazione delle banche estere in Italia è sul piede di guerra e minaccia ricorsi a Bruxelles: «Già la fiscalità che colpisce il sistema bancario italiano è di 67 punti superiore a quello medio europeo dice il presidente Guido Rosa . Con la Robin Tax le banche estere che per disposizioni di vigilanza non hanno un capitale e un patrimonio proprio sono colpite ancora di più, con incrementi della tassazione dal 5 al 20 per cento». «Noi spiega Dario Caprioli, direttore finanziario di Ing Italia lavoriamo soltanto sul margine d’interesse, non abbiamo ricavi da commissioni come altre banche». Fra le banche italiane, partendo dai bilanci del 2007, sembrerebbe molto colpita Mps (5 per cento l’aggravio di aliquota, contro una media del 23 per cento degli istituti che fanno capo all’Abi). Il punto vero, però, è che la norma si proponeva di colpire gli extraprofitti. Invece, potrebbe in teoria capitare anche che una banca passi da un utile a una perdita di bilancio. «Penso che la Robin Tax, oltre che essere superata dagli eventi, non sia un buon metodo per colpire gli extraprofitti», spiega Salvatore Biasco, docente di Economia internazionale all’Università La Sapienza di Roma. In teoria, si potrebbe studiare una norma che fissi il pagamento di una tassa superiore sull’extraprofitto, individuato come profitto superiore a una certa soglia (101215 per cento dei mezzi propri): «In Belgio, e nei Paesi scandinavi dice Biasco . anche se su altre basi c’è già una tassazione differenziata sui profitti, con un’aliquota normale e una più alta». Mittel, i nuovi progetti di Bazoli una merchant bank a 360 gradi

ANDREA LUCIDI
Rispetto alla struttura tradizionale che aveva fino a poco tempo fa, è in atto in Mittel un grosso processo di cambiamento. A partire dalla nomina del direttore generale e a amministratore, Giovanni Gorno Tempini, che ha sostituito da una quindicina di mesi Guido De Vivo, direttore generale del gruppo per diciotto anni (e attualmente proprietario del 49% della controllata Mittel Private Equity, mentre la maggioranza è rimasta al gruppo d’origine). E ora c’è il tentativo di allargare l’orizzonte e di ristrutturare le partecipazioni anche se la sostanza di Mittel resta quella di sempre: ovvero quella di essere il "feudo" del professore, la plancia di comando di Giovanni Bazoli. E, come tutti i veri centri di potere, non ha bisogno di grandi capitali e di partecipazioni imponenti per funzionare: bastano la qualità delle quote, il loro peso specifico, per imporsi. Il direttore generale Gorno spiega però come adesso Mittel vuole in parte cambiare pelle: «Senza naturalmente rinnegare il ruolo di holding di partecipazioni, vogliamo tuttavia integrare questo ruolo con un’attività ricorrente», spiega. Per attività ricorrente s’intendono tutti i servizi all’impresa, quelli che danno commissioni permanenti. Come ad esempio il corporate lending, che già era nella pancia di Mittel. Ma a dare una spinta all’attività ricorrente è stata l’acquisizione, nel settembre scorso, di E.Capital Partners, che ha già cambiato nome in Mittel Corporate Finance: dunque nuovi servizi di Merger & Acquisition e Grant advisory (consulenza per la agevolata destinata alle imprese). Ma dentro E.Capital partners c’era anche un’altra società in grado di dare una spinta alle attività ricorrenti, e cioè Ecpi, specializzata nella creazione di rating e di indici (vedi articolo in pagina) sulla sostenibilità, molto graditi alle società che fanno attività di asset management. Restano, oltre alle nuove attività ricorrenti, quelle non ricorrenti, come i fondi di private equity gestiti dalla controllata Progressio Sgr e anche quelli di Mittel Private Equity. In particolare, il successo dell’operazione Moncler, la società di abbigliamento ceduta nel 2008 a tre anni dall’acquisto, ha dato a Progressio la possibilità di chiudere con un anno di anticipo gli obbiettivi di bilancio (il ritorno sull’investimento è stato uno strabiliante 88 per cento). La stessa Progressio si sta preparando a realizzare un secondo fondo di private equity. Resta poi tra le attività più importanti del gruppo il real estate, attraverso Mittel Investimenti Immobiliari. Complessivamente, Mittel si sta trasformando in una merchant bank a 360 gradi, specializzata in servizi a tutte le imprese ma con una particolare predilezione per quelle medie. Non dimentica inoltre di essere una holding di partecipazioni. Ma il grande colpo che ha dato un nuova spinta a Mittel è stato l’acquisizione di Hopa, perfezionata il 24 dicembre scorso. Di Hopa è stato acquisito un pacchetto del 38,7 per cento, poi salito al 39,5, tramite la Thethys, a sua volta controllata da Mittel, da un altro fondo di private equity, Equinox 2 (che fa capo a Salvatore Mancuso), da Mps e da Banco Popolare. Proprio l’acquisizione di Hopa mostra la necessità di rimettere ordine e razionalizzare le attività e le partecipazioni di un gruppo, Mittel, che è cresciuto molto negli ultimi tempi. Per Hopa è stata fatta una ristrutturazione del debito e ora si cercherà di valorizzare tutti i ‘tesori’ che vi sono dentro. A cominciare dalla Sorin, la società biomedicale che sembra lanciata verso un buon successo. Il lavoro per Gorno non manca. Anche dopo il recente arrivo di Angelo Rovati, l’ex consigliere di Prodi, a presidente di Mittel Generali Investimenti. Gorno infatti rimane direttore generale e amministratore della capogruppo, Mittel Spa. Il gruppo presieduto da Giovanni Bazoli ha di recente incassato un rating positivo di Equita Sim con un ‘buy’ (acquistare’) e un target price di 4 euro contro il 2,62,7 dei giorni scorsi. «I punti di forza della società scrivono gli analisti Luigi De Bellis e Martino De Ambroggi nel report sono una solida struttura finanziaria (cassa netta di 11 milioni e oltre 500 milioni di linee di credito disponibili), un portafoglio molto più diversificato che in altre holding, una inusuale prevalenza di asset non quotati (76 per cento del totale) e un alto dividend yield (5,3 per cento)". Inoltre, si legge ancora nel report, nei trascorsi tre anni la società ha raggiunto eccellenti risultati: l’utile netto è cresciuto fra il 2005 e il 2007 dell,81 per cento. Guadagnare con gli indici per le Sgr
Dentro ECapital Partners, acquisita da Mittel, c’è anche Ecpi (wwwecpartners.com), una società di consulenza che si occupa di investimenti sostenibili dal 1997. Ecpi produce rating e indici sulla base di indicatori di sostenibilità: l’analisi Esg (Environmental, Social and Governance) delle emittenti societarie e governative e l’analisi Mars® (Manager Alpha & Risk Score) dei Manager di Hedge Fund . Attraverso i suoi prodotti, banche e investitori Istituzionali europei, americani, asiatici ed australiani investono oltre 9 miliardi di euro. Gli investimenti sostenibili e in particolare i cosiddetti investimenti "verdi" sono in questo momento di mercato tra i pochi prodotti finanziari ad alto potenziale. I pacchetti di aiuto all’economia varati dal governo statunitense, per esempio, dimostrano la forte attenzione verso gli investimenti nel settore delle energie rinnovabili. Allo stesso modo anche l’Unione Europea ha stanziato 200 miliardi di euro da destinare tra l’altro alla lotta al cambiamento climatico e agli investimenti in tecnologie ed edilizia energeticamente efficiente. La cosiddetta "Rivoluzione Verde" sembra perciò essere uno dei principali driver di crescita dei prossimi anni. In quest’ambito Ecpi ha sviluppato diversi indici investibili legati ai settori economici in grado di beneficiare da questo nuovo trend. Tra questi c’è anche l’Ecpi Climate Change Index. A dimostrazione delle fondamentale decorrelazione di questo tema d’investimento nel mediolungo periodo, l’indice di Ecpi tra il 2003 e il 2009 ha registrato una performance positiva del 49.97% in confronto al 21.71% dell’indice globale MSCI World. Perché il dollaro è destinato a rivalutarsi contro l’euro
la lettera
FRANCESCO ARCUCCI
La stragrande maggioranza degli economisti prevede una netta flessione del dollaro statunitense nel prossimo futuro. L’abbassamento del cambio euro/dollaro a partire dall’estate 2008 dal livello di 1,60 a 1,30 sarebbe a loro avviso una reazione temporanea e fisiologica alla grande cavalcata della moneta europea da 0,83 a 1,60 avvenuta nell’arco di oltre sei anni e cioè dal 2002 alla metà del 2008. Del resto la moneta americana ha un passato di moneta debole contro le maggiori valute del nostro Continente. All’inizio degli anni 1970 un dollaro valeva 4 marchi e una lunga scivolata, interrotta solo da poche e brevi riprese, l’ha portato a valere (fatte le debite proporzioni con l’euro) circa 1,30. Inoltre, la generalità degli economisti sottolinea altri fattori di debolezza della moneta americana, come il grande deficit della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti, che non sembra congiunturale, ma addirittura strutturale, e la tendenza della Fed di mantenere i tassi di interesse al di sotto di quelli prevalenti in Europa. Milita, infine, a favore dell’indebolimento del dollaro il rischio che il medesimo perda lo status di moneta di riserva che comporta il suo uso da parte delle banche centrali di tutto il mondo nella denominazione dei loro crediti sull’estero. Nonostante queste ragioni e l’autorevolezza di coloro che prevedono un ribasso, io sono convinto che il dollaro si rafforzerà e di molto e il motivo risiede soprattutto nella grandissima crisi economica che stiamo attraversando e che ha scompaginato le cose. Oggi, a mio avviso, i Paesi principali si dividono in 3 gruppi. Il primo è formato da un Paese solo, gli Stati Uniti che, nonostante tutte le dichiarazioni in contrario rilanciate dai media, godono e continueranno a godere dello status di riserva della propria moneta e cioè del privilegio straordinario di pagare i debiti con la moneta che essi stessi creano. Washington, cioè, quando si trova in una situazione di difficoltà, come adesso, può fare ricorso all’espansione della base monetaria ottenendo credito senza limite, sia all’interno del Paese, sia all’estero attraverso la funzione rivestita dal dollaro internazionalmente. Le banche centrali degli altri Paesi spesso protestano e minacciano di non acquistare più dollari, ma di fatto non sono in grado di trovare un’alternativa valida per denominare le proprie riserve di liquidità internazionale. Si parla di Bretton Woods 2, di rimonetizzazione dell’oro e qualcosa probabilmente si farà in questa direzione, ma il dollaro è il re delle riserve ed è destinato a rimanerlo chissà per quanto tempo. Nel secondo gruppo vi sono altri Paesi che dispongono di una banca centrale a livello nazionale, come la Gran Bretagna, il Giappone, la Svezia, la Svizzera, etc. Anche il Tesoro di questi Paesi può ottenere credito senza limiti, ma solo a livello nazionale. La sterlina, lo yen, la corona svedese, il franco svizzero non sono monete di riserva e non consentono ai governi di quei Paesi lo stesso potere monetario degli USA. E poi vi sono i Paesi dell’Eurozona. Il Tesoro di questi Paesi non può godere dell’appoggio della Bce. In una situazione normale questa impossibilità della Bce di esercitare la politica del debito pubblico potrebbe essere considerata come un fatto positivo per la stabilità dell’euro non soggetto agli eventuali capricci della politica. Ma in condizioni eccezionali come quelle presenti le cose vanno diversamente. In altre parole: la Bce non è soggetta ne’ all’obbligo di finanziare il Tesoro (il cosiddetto "matrimonio"), ne’ dispone del diritto di finanziarlo solo se lo desidera (il cosiddetto "divorzio"). Per la Bce l’obbligo è tout court quello di non finanziare gli Stati. Sono tre gradi diversi di rapporto banca centrale/Tesoro ma, a mio avviso, l’unico coerente con la gravità della crisi economica è il primo. Per questo io sono prudentemente ottimista sugli Stati Uniti e pessimista sull’Europa e specialmente su Eurolandia, dove alcuni Paesi, purtroppo, sperimenteranno che, senza la ciambella di salvataggio della banca centrale, è ben difficile restare a galla. Con conseguente grande rialzo della moneta USA e grande ribasso per l’euro. Usa e Ue, assedio ai paradisi fiscali Minivertice in Svizzera, Austria e Lussemburgo in difesa del segreto bancario MARCO ZATTERIN
BRUXELLES
Hanno paura di essere cacciati dal paradiso (fiscale) loro che proprio angeli non sono mai stati. Così si sono incontrati ieri pomeriggio in Lussemburgo per decidere una strategia comune in difesa del segreto bancario sul quale hanno costruito una buona parte delle loro fortune, il ministro delle Finanze del Granducato Luc Frieden, l’elvetico Hans Rudolf Merz, e l’austriaco Josef Pröll. Missione difficile, se non impossibile. Dopo la micidiale crisi finanziaria scatenata proprio dalla viscosità dei mercati creditizi, la possibilità che qualche Paese del club dei migliori possa continuare a tenere nascoste informazioni su conti e pagamenti è del tutto fuori moda nella grandi capitali. Nicolas Sarkozy e Angela Merkel guidano la crociata. Il presidente francese, giusto una settimana fa, ha paventato la possibilità di inserire la Svizzera nella lista nera dei paradisi fiscali, quelli che non collaborano e che, anzi, ostacolano la vigilanza dei flussi di capitale. Della questione si parlerà anche al G20 del 2 aprile per tracciare le linee della riforma dell’architettura finanziaria del pianeta. Anche perché i banchieri della Confederazione hanno già avuto il loro bravo scontro il mese scorso con gli americani, vittoriosi nel costringere l’Ubs a consegnare, pagando una salata multa, i nomi di trecento clienti a stelle e strisce sospettati di frode fiscale. La cancelliera tedesca dopo il caso Liechtenstein ha aperto gli occhi e dichiarato guerra a tutti i sistemi che consentono con facilità ai contribuenti di non versare le tasse nei forzieri federali. Il suo ministro delle Finanze Peer Steinbrück, come con la collega francese Lagarde, ha deciso fra l’altro di chiedere al prossimo G-20 di imporre a banche e assicurazioni piena trasparenza sulle attività che mantengono nei paradisi regolamentari. Il cerchio si stringe. In Europa, a parte le isolette che nessuno sembra veramente voler toccare, sono rimasti pochi a garantire un segreto bancario inviolabile vecchio stile. Tre sono Stati comunitari (Belgio, Lussemburgo, Austria), che hanno ottenuto una deroga al principio dello scambio di informazioni della direttiva Risparmio del 2003. In cambio, i guardiani del paradiso hanno inasprito le condizioni di imposta. «Il segreto bancario fa parte della nostra mentalità sociale e della nostra concezione della protezione della sfera privata», si difende lo svizzero Merz. Chiaro? Se non lo fosse, ecco come la pensa il lussemburghese Frieden. «Non siamo pronti ad abbandonare il segreto bancario nemmeno se si tratta di lottare contro la criminalità fiscale» ha affermato. Se uniamo il fatto che il suo premier Jean-Claude Juncker è presidente dell’Eurogruppo, e che il Granducato fa un terzo del pil con la finanza, si intuisce bene quanto duro potrà essere lo scontro. In attesa che domani i ministri economici europei facciano il punto sui Paesi non cooperativi, Merz, Pröll e Frieden si sono trovati insieme nell’essere contrari ad abbandonare il segreto bancario sino a quando esso sarà tollerato e praticato fuori dall’Europa, leggi Hong Kong o Singapore. Questo è un punto. Bisogna capire come si coniugherà con le dichiarazioni dei premier nazionali, sulla carta pronti alla necessaria collaborazione. Come? Tutto da vedere. La novità è che Usa e Ue fanno sul serio, così i più scommettono che i presunti angeli perderanno. Come è quando è però presto per dirlo.
Il mercato non crede che il sistema bancario italiano sia solido
Nella settimana appena trascorsa Piazza Affari ha patito più delle altre borse europee. Da oggi si
tenterà il rimbalzo ma sullo sfondo vi sono le preoccupazioni sui titoli bancari italiani. Nell’occhio
del ciclone vi sono Unicredit, Intesa Sanpaolo e Banco Popolare.
Quando nei giorni scorsi si sono chiuse le sedute di contrattazione nelle piazze finanziarie, molti si
sono domandati come mai Milano era risultata la peggiore, con forti perdite. Giovedì scorso, il 5
marzo, l’indice Mibtel ha perso il 5,39%, mentre l’SP/Mib il 5,85%: contrazioni ben più forti
rispetto a Londra o Parigi, superiori perfino a quelle di Wall Street. A guidare i ribasso ci hanno
pensato i titoli bancari, sulla scia di indiscrezioni riguardanti la situazione patrimoniale di
UniCredit, l’importo delle linee di credito di Intesa verso Fiat e l’ipotesi di delisting di Banca
Italease da parte del controllante Banco Popolare. La situazione ritenuta più preoccupante dagli
operatori finanziari è quella del gruppo di Alessandro Profumo. Non sono bastate le rassicurazioni
del numero due di UniCredit, Roberto Nicastro, per far riprendere quota al titolo, ormai abituato a
non raggiungere il valore di un euro per azione. Nicastro, parlando del credit crunch che avrebbe
colpito la banca, afferma che «la liquidità c'è ed è fondamentale che non venga a mancare per le
imprese meritevoli». A conferma di ciò, sono stati snocciolati i dati concernenti il primo bimestre
2009, che ha visto un tasso di accettazione delle domande di finanziamento del 75%, per un
totale di quasi due miliardi di euro erogati a 22mila PMI. Ma questo non basta al mercato.
No, perché il sentore fra gli analisti e i trader è che la situazione delle banche italiane sia peggiore
di quanto dicono i banchieri. Per infondere liquidità, lo scorso ottobre fra il gruppo di Profumo e
Bankitalia è avvenuto uno swap di titoli di stato per 1,9 miliardi di euro, operazione che rientrava
nel piano di misure anti-crisi proposta dal governo. Anche per Intesa e Monte dei Paschi di Siena il
discorso è stato analogo, con benefici sul core tier 1, il patrimonio netto depurato dalle preference
shares. Ma, anche in questo caso, il mercato ha finito per bocciare le misure adottate al fine di
garantire contanti alle banche.
Prendendo il caso di UniCredit, viene confermata la tendenza del mercato altamente volatile ed
influenzabile, spesso non suffragata da colossali pecche di bilancio. Piazza Cordusio ha fatto un
aumento di capitale nell’ordine di 3 miliardi di euro nello scorso ottobre, mentre potrà contare sui
Tremonti Bond per altri 3 mld e sugli aiuti a Bank of Austria per 4,5 miliardi. Il tutto per circa 10,5
miliardi di euro che contribuiranno ad aumentare il core tier 1 fino al 7,8%, un valore considerato
sicuro dagli analisti. Quello che preoccupa, invece, è la quantità di derivati su cui è esposto il
gruppo verso l’Est Europa. La situazione di Polonia, Lettonia ed Ucraina fanno tremare molti
investitori, dato che i rischi di un default di uno di questi paesi sembra sempre meno improbabile.
Profumo ha ricordato come «a tutt’oggi non sono previsti default di questi paesi e guardando i
dati, anche di gennaio, si continuano ad avere performance buone. Ci rendiamo ovviamente conto
dei rischi impliciti in questa parte del mondo su cui stanno intervenendo anche le autorità». Si
parla di una cifra tra i 5 ed i 9 miliardi di euro di perdite ancora da scontare nei bilanci, derivanti
solamente dall’Est. In effetti, finora le banche italiane hanno patito poco la peggior crisi dalla
Grande Depressione. Si è invocata la forte territorialità e l’attitudine provinciale dei nostri istituti
di credito per spiegare il fenomeno. Così non è del tutto esatto, dato che poco conta la grandezza
della banca, ma vale la natura degli investimenti e delle speculazioni che essa compie.
UniCredit continuerà il suo andamento altalenante fin quando non emergeranno le cifre delle
perdite. Quello in atto è un gioco come quello che fa il gatto col topo. Più il tempo va avanti, più
sarà complicato prendere atto delle svalutazioni. Il brutto è che questo discorso non vale
solamente per il gruppo di Piazza Cordusio, ma per tutte le grandi holding bancarie italiane. La
trasparenza, tanto desiderata dagli operatori, è ancora lontana.

Banche, il carosello e la paura
“Buongiorno, mi può cambiare questo assegno?”. “Buongiorno, mi dia pure l’assegno le faccio un
favore a cambiarlo ma da oggi non siamo più la stessa banca di venerdì scorso”. Ecco, a posto.
Passa un week end e il tuo sportello bancario che fino al venerdì prima ti dava sicurezza, assistenza, bancomat, il carnet degli assegni, diventa un’altra cosa. “No ma non si preoccupi –aggiunge solerte il cassiere - siamo sempre nello stesso gruppo, solo che siamo tornati quello che eravamo prima della fusione”. Riecco. Ci si fonde, poi si scopre che per ragioni di mercato quel marchio che c‘era prima in quella città o in quella regione era più forte del nuovo none aggregato

Source: http://www.falcri.it/documenti/2831.RASS_10_03_2009.pdf

northsomersetccg.nhs.uk

P.A.I.N.S Prescribing Advice In North Somerset Wc 13/5/13 Public Health England have issued information leaflets containing clinical advice and symp- toms about ticks & Lyme disease. These can be obtained from nd There is a local Public Health training evening for pharmacists and technicians on June 3rd at Castlewood to explain this year’s campaigns which include Be SunS

copdexchange.co.uk

Treating and Preventing COPD Exacerbations Exacerbations of chronic obstructive pulmonary disease (COPD) are common and have serious implications. They are distressing The following are signs of a severe exacerbation:1 and disruptive for patients, and account for a significant proportion of the total costs of caring for patients with COPD.1 Acute exacerbations of COPD are the second most

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