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“Es, quizás, soñar la única cosa existente. El realismo se Odio i colori, il movimento. Mi piace la Milano d’inverno, lo smog, gli impermeabili scuri, le teste chine sotto un velo di pioggia. Passo le giornate alla finestra sparando ai passanti. L’ora migliore è verso le sette di sera, quando le commesse escono dai negozi del centro, i marciapiedi sono pieni di ragazzini vestiti con due taglie di troppo e la via sotto casa è intasata di motorini. Punto la carabina, seguo la mia vittima mentre cammina per strada, oppure vago sul suo corpo se è ferma davanti a una vetrina e sta parlando con qualcuno, poi, con le labbra strette a becco, premo il grilletto. “Giorgio, sei ancora alla finestra? Cosa fai con la stampella? Dai vieni, sono le otto, c’è la zuppa in tavola”. Mia madre. Scuoto la testa senza voltarmi. Odio la zuppa di cipolle. Il nostro appartamento puzza di cipolle. Mia madre puzza di cipolle. La mia vita puzza di cipolle. Mi rendo conto che negli ultimi dieci giorni avrò spiccicato sì e no dieci frasi. Con i miei non ho mai avuto niente da dire, dal giorno dell'incidente ho parlato più con il dottore che con loro, per il resto solo un paio di veloci telefonate di compagni di classe. Non è che mi si secca la gola? Mi metto davanti allo specchio e faccio dei vocalizzi. Ho scoperto su Focus che uno dei miei sogni ricorrenti, quello in cui mi interrogano e non riesco a parlare, è diffusissimo, lo fanno quasi tutti. Solo che scrivono che è un incubo: per me invece è un sogno come tanti altri, nè brutto nè bello. Non sono mai stato di tante parole. In uno dei ricordi più vividi della mia infanzia sono nel giardino di nonna Beatrice. Sono seduto su una sedia di legno vicino a lei e ad altre persone, non faccio niente di particolare tranne che ascoltare la loro conversazione, ad un certo punto lei mi chiede: “E tu Giorgio non dici niente?”. Io non riesco a dire una parola, mi alzo dalla sedia, me ne vado senza parlare; lei inclina appena la testa come se avesse sentito nell’aria un fischio, un richiamo, poi ricomincia la conversazione da dove l’ha lasciata. La gamba rotta non mi fa quasi più male, ho iniziato la giornata con la solita pillola di Prozac, e poi, durante la giornata, un po’ a caso, mi faccio qualche goccia di Valium. Non penso sia dipendenza, non dopo quattro settimane. Il giorno dell’incidente mi hanno dato il Valium all’ospedale, poi qualche altra goccia me l’ha fatta prendere a casa mio padre, per farmi dormire la notte. Le settimane successive ho cominciato a prenderlo anche di giorno, più per noia che per altro: mi aiuta a riempire i pomeriggi. Il Prozac ho cominciato a prenderlo da dieci giorni: il medico ha detto che sono depresso per l’incidente. Sarà che nei dieci minuti in cui abbiamo parlato gli ho chiesto quanto vicino ero stato alla morte: se lo rifaccio dieci volte, gli ho detto, una mi rompo di nuovo il femore e le altre nove mi spappolo la testa. “Sei stato molto fortunato”, mi ha risposto. A me non sembra di stare meglio o peggio del solito. E non penso che esista la fortuna. Penso spesso alla morte, ormai non riesco a pensare ad altro. La tomba con il marmo sopra, due date, una foto che perderà colore con il tempo. Cosa c’è dall’altra parte? Forse niente, forse siamo solo grumi d'energia che dopo la morte si perdono nel buio cosmico, sarebbe buffo, no? Niente, noi non siamo niente, alla faccia della chiesa e di tutte le religioni che cercano di venderci speranze inutili. Nessuno è mai tornato dalla morte. Il tunnel, la luce intensa, la sensazione di benessere che quelli che dicono di essere tornati hanno provato, per me non significano niente, io sono andato a bussare alla porta della morte e lei, bastarda, non ha voluto aprire. Mi ha rimandato indietro, ha detto: “pensaci tu” e io, io ci penso, alla mia vita fatta di cose e persone che non ho mai scelto. Non so come sarà il futuro, posso solo ripetermi che sarà diverso. Ieri pomeriggio ero solo in casa, mia madre è andata dal dentista. Ho ascoltato un paio di concerti per pianoforte di Beethoven steso sul letto, poi fuori si è annuvolato e ho messo i Van Halen. Mentre Eddie era impegnato in un assolo sulla sua Fender Frankstrato, sono entrato nella stanza dei miei. Erano cinque anni che non ci mettevo piede. Tutto uguale a come me lo ricordavo. Il letto con la spalliera di ferro, qualche quadro sui muri, i candelabri di vetro di Murano. Apro un cassetto del comò. Sotto l’ultimo “Corriere sella Sera” c’è una scatola di preservativi. Nel’angolo sotto la finestra, un vecchio giradischi con qualche trentatrè giri pieno di polvere, mi avvicino e tocco le copertine in cartone con le foto ingiallite, da una scivola fuori una rivista porno. Apro l’armadio, tra le lenzuola del secondo cassetto trovo un diario di mia madre. Mi butto sul letto e comincio a sfogliarlo. Qualche poesia. Fantasie sessuali. Scrive che non ha mai avuto un orgasmo con mio padre. Sempre saputo che la mia nascita è stata solo dolore e nessun piacere. Non mi ha sorpreso niente, nemmeno dove scrive del sesso a pagamento. Poi mi sono masturbato. Ho avuto cura di lasciare la macchia giallastra giusto a metà, nella fessura tra i due materassi. Ho rimesso il diario al suo posto. Nell’armadio, dietro ai cappotti impolverati, ho trovato una vecchia carabina. L’ho nascosta in camera mia. Stasera ho cenato con i miei, erano mesi che non lo facevo. Sembravano contenti. Mio padre parlava con pacata soddisfazione di non so quale legge del nuovo governo, mia madre mi ha detto che ha visto per strada un paio di amici miei: volevano sapere se stavo bene, quando potrò tornare a scuola. Ho strizzato gli occhi, ho fatto di sì con la testa, cercando di mostrare entusiasmo. “È vero che lui non ti ha mai fatto godere?” le ho chiesto addentando un pezzo di focaccia. “Cosa hai detto, Giorgio?” . “Davvero il budino l’hai fatto con le pere?”. “Ma che dici? Vuoi ancora un po’ di zuppa di cipolle?”. Sto diventando bravo con le stampelle. All’inizio mancavo spesso il bersaglio: la pallottola frantumava la vetrina della carrozzeria di fronte, o rimbalzava sull’asfalto alzando uno sbuffo di polvere. Quando colpivo la vittima era solo di striscio, gli aprivo uno squarcio nella manica del piumino, o gli fracassavo una spalla. Adesso invece, nove volte su dieci, cade a terra di colpo, con una pallottola infilata nella spina dorsale, tra le due prime vertebre cervicali. Ieri sera ho spiaccicato una zanzara con una pallottola. Il proiettile si è infilato tra due perline, ne è uscito uno sbuffo bianco, la testa di mia madre ha fatto capolino dalla porta per un istante, poi s’è ritirata. Ho coperto il buco con un poster del Che. Da due settimane ho ricominciato ad andare a scuola. I professori sanno del Valium, del Prozac, mi lasciano in pace: passo ore a guardare i piccioni, attendendo che lascino i loro ricordini bianchi sul davanzale della finestra. Al pomeriggio vado al parco di Trenno, o in Via Novara dove battono i travestiti, o nelle stradine di fianco al Bonola. Cammino zoppicando e quando passo accanto a qualche prostituta isolata, le punto al petto la mia stampella di legno e sparo. All’inizio mi hanno vomitato addosso di tutto, una ha chiamato un paio di amiche, volevano picchiarmi, ma negli ultimi giorni sono ritornato a essere una faccia anonima, non preda, nè predatore. Tra tre giorni è Natale. Ho imparato a conoscere dove le prostitute portano i clienti in macchina, il parcheggio isolato e nascosto dagli alberi della strada che porta a Trenno. La vecchia Punto ha i fanalini di coda rotti, una botta arrugginita sul paraurti posteriore. Giro attorno alla macchina, i finestrini sono appannati. L’uomo è sopra la donna, sul sedile di guida, pompa il bacino meccanicamente, quasi con noia, per un attimo sembra non si debba fermare nemmeno quando la macchia di sangue gli si allarga sulla schiena. Il corpo flaccido e sudaticcio scivola di fianco, si va a incastrare tra i due sedili. La donna apre gli occhi all’improvviso, come se si fosse appena svegliata. Forse non si rende nemmeno conto che l’uomo che aveva sopra di se le è scivolato di lato, si spolvera le cosce dalle schegge di vetro, si riassetta i capelli biondo platino con le mani sporche di sangue. Sparo un secondo colpo. Poi un altro ancora. Nel gelo della notte la puzza di cipolle è quasi un pugno in faccia.

Source: http://www.giallomilanese.it/tales08/191.pdf

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MAN, SIN AND SALVATION By Dr. S. W. Marais LESSON 1 ANTHROPOLOGY: THE STUDY OF MAN IN HIS MORAL AND RELIGIOUS ASPECTS. LESSON 2 HARMARTIOLOGY; THE DOCTRINE OF SIN LESSON 3 SALVATION IN CHRIST LESSON 4 THE EXTENT OF THE ATONEMENT LESSON 5 HOLINESS IS LIVING RIGHTEOUSLY LESSON 1 Anthropology: the Study of Man in his Moral and Religious Aspects. Lesson Purpose Th

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