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Tra rito celebrato e sacramento permanente
Agosto 2002
Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta. Si direbbe che il riposo gli è vietato. Quello che si sa di lui lo si deve a un libro. Se avessimo un orecchio un po' più fine, potremmo fare a meno di quel libro e ricevere notizie di lui ascoltando il canto dei granelli di sabbia, sollevati dai suoi piedi nudi. Nulla si riprende dal suo passaggio e il suo passaggio non conosce fine. Sono dapprima in quattro a scrivere su di lui. Quando scrivono hanno sessant'anni di ritardo sull'evento del suo passaggio. Noi ne abbiamo molti di più: duemila. Tutto quanto può essere detto su quest'uomo è in ritardo rispetto a lui. Conserva una falcata di vantaggio e la sua parola è come lui, incessantemente in movimento, senza fine nel movimento di dare tutto di se stessa. Duemila anni dopo di lui è come sessanta. È appena passato e i giardini di Israele fremono ancora per il suo passaggio, come dopo una bomba, onde infuocate di un soffio. Se ne va a capo scoperto. La morte, il vento, l'ingiuria: tutto riceve in faccia, senza mai rallentare il passo. Si direbbe che ciò che lo tormenta è nulla rispetto a ciò che egli spera. Che la morte è nulla più di un vento di sabbia. Che vivere è come il suo cammino: senza fine.1 Siamo Renata e Daniele Rocchetti, di Bergamo e siamo sposati da 14 anni.
Francesco, di undici anni, e Davide, di otto, sono i nostri due figli. Da qualche
settimana siamo in attesa del terzo figlio che, se Dio vuole, nascerà a fine marzo.
Abbiamo voluto cominciare la nostra relazione con un testo di un autore francese che
amiamo molto: Christian Bobin. Il titolo è “L’uomo che cammina” ed è stato
pubblicato, qualche anno fa, dalle edizioni Qiqajon della comunità di Bose. Ci è
piaciuto – e ve lo leggeremo integralmente durante la nostra chiacchierata – perché
dice bene il “movimento” proprio dell’avventura umana e dice bene della speranza
cristiana: la morte nulla più di un vento di sabbia.
Perché siamo qui? Tutto è cominciato una sera di febbraio. Suona il telefono: sarà per
Daniele, penso. Lascio andare la segreteria telefonica o alzo la cornetta? Decido di
alzare . E’ Maria Carla Volpini…. Ci chiede la disponibilità a tenere questa relazione.
Ci sono alcune difficoltà da parte nostra per la sessione primaverile, l’oggettività
delle quali mi toglie dall’imbarazzo di un rifiuto. Maria Carla dice “Ok per
primavera…” ma rilancia per la sessione estiva. Mi tocca “scoprirmi”: “Guarda, io
proprio non me la sento di parlare in pubblico.” Spero nella sua comprensione al di
là delle mie poche parole: niente! Dovrei dire troppo, così, al telefono, spiegando che
io certe cose le dico a fatica in una “piccola” famiglia, nella mia equipe, con amici stretti… Daniele se la ride: non oso chiedere di più a Maria Carla… Quindi eccoci qua, tenendo io dentro questa sensazione tra l’imbarazzo e l’insufficienza: certe cose le devo ancora maturare, pensare, devo ancora farci il punto e, poi, con queste parolone ,“rito” “sacramento”, io non ho dimestichezza, non le uso, non le definisco. Maria Carla per rincuorarmi o spingermi mi aveva detto: “Dai siamo in una famiglia…” E io a pensare che, se volete, ve le spiega Daniele: magari da solo riesce anche a rendere “pubblico” (perché poi, immagino di spiegare ancora a Maria Carla, questa grande famiglia, il movimento… non è privato, non è pubblico…), dicevo: Daniele se la caverebbe egregiamente ad esplicitare come le viviamo… ma insomma si sa che nell’equipe ci si gioca in due… Da dove veniamo? Geograficamente dallo stesso piccolo paese. Per formazione, siamo diventati grandi nello stesso oratorio. Daniele più come l’organizzatore, l’animatore, io come una dei tanti ragazzi che vivevano le iniziative, le domeniche annoiate, le gite, le chiacchierate con il curato… era il mio mondo dove diventare grande. Daniele era già lì ed altrove, arrivava da viaggi, incontri, convegni, raccontava, “sparava”. Lo osservavo… a distanza: quella sicurezza, quella “sfrontatezza” lo rendevano inavvicinabile Estremamente suscettibile, non mi va di essere valutata, giudicata, consigliata, magari messa in ridicolo, travolta… Daniele in questo era un maestro! Per caso… quante volte ci siamo ripetuti: perché ci siamo incontrati? Cosa è stato quel “qualcosa” di nuovo che ci ha fatto guardare con occhi nuovi? Non è stato troppo “normale”, “occasionale”? Eppure anche Dio stesso pare muoversi con la stessa logica. Secondo il vangelo di Giovanni (1,35-39), il Battista “andando là per caso”, incontra Gesù. Non si trovava lì apposta. Eppure per caso sembra a noi. Forse quest’apparenza di occasionalità che segna la nostra vicenda di coppia (quante volte ce lo siamo detto!) è la traccia che indica un evento che non è nostro: non siamo stati noi a pensarlo né a progettarlo, accade! Le cose di Dio accadono. Quante volte nel Vangelo ci siamo imbattuti in questo verbo: “accadde”. E’ il modo di Dio per insegnarci che si tratta di un dono. Così al contadino che arava in un campo capitò di trovare un tesoro e allora corse a comprare quel campo perché afferrato da quel tesoro che sembrava capitato lì per caso. Anche i due discepoli – si direbbe per caso – hanno sentito Giovanni che mostrava Gesù. E questa è stata la loro grande occasione. Non è che questa è anche una indicazione per la nostra vita? Molte cose sembrano capitate per caso, anche le cose più importanti – non tutte, molte sì – non sono costruite da noi, sono dono di Dio. Però bisogna essere in grado di vedere queste cose quando succedono, dobbiamo capirle! Giovanni non era lì ad aspettare Gesù, però appena lo vide passare, fu in grado di fissare lo sguardo su di lui. La samaritana era al pozzo a prendere l’acqua: non si aspettava certo di incontrarlo, eppure non si è sottratta. Quante volte ci è capitato di essere ripiegati su di noi e di non vedere più niente. L'umano è chi va così, a capo scoperto, nella ricerca mai interrotta di chi è il più grande. E il primo venuto è più grande di noi: è una delle cose che dice quest'uomo. È l'unica cosa che cerca di inculcare nelle nostre teste grevi. Il primo venuto è più grande di noi: bisogna scandire ogni parola di questa frase e masticarla, rimasticarla. La verità la si mangia. Vedere l'altro nella sua nobiltà di solitudine, nella bellezza perduta dei suoi giorni. Guardarlo nel movimento del venire, nella fiducia in questa venuta. E quanto si sfianca a dirci, l'uomo che cammina: non guardate me. Guardate il primo venuto e basterà, e dovrebbe bastare. Va dritto alla porta dell'umano. Aspetta che questa porta si apra. La porta dell'umano è il volto. Vedere faccia a faccia, da solo a solo, uno a uno. Nei campi di concentramento i nazisti proibivano ai deportati di guardarli negli occhi, sotto pena di morte immediata. Colui di cui non accolgo più il volto - e per accoglierlo bisogna che io lavi il mio volto da qualsiasi residuo di potenza - quello io lo svuoto della sua umanità e me ne svuoto Io stesso. E poi un giorno, guardarsi negli occhi, riconoscersi e sentirsi uno “sdilinquimento” dentro, timoroso e dolce, trepidamente tachicardico e insieme forte, insopprimibile: il desiderio di stare insieme… Per me, ricordo il momento, l’attimo: una domenica estiva, calda, pomeriggio, la staffetta ininterrotta tra oratorio e casa, chiacchiere a perdere nel paese deserto. Ad uno “stop” spunta Daniele trafelato e allegro, in bicicletta, mi guarda e… mi riconosce! Non mi ricordo che cosa ci siamo detti, ma subito dopo, sola, a casa, percepisco una leggerezza, un allegria gorgogliante, la voglia di ridere ad alta voce. ne restano tracce chiare nel ricordo. In oratorio gli amici sono incuriositi e dicono chiaramente che il mix tra noi due è esplosivo. Mia madre dà segno di aver accolto la notizia malissimo: la sua primogenita, giovane, acerba, con ancora gli studi da completare, bisognosa del suo nido familiare, dei consigli, delle dritte materne… non si trova un amichetto “normale” (se proprio deve trovarlo, meglio sarebbe l’autosufficienza da queste storie), ma si fa travolgere dal ciclone Daniele. I miei – e soprattutto mia madre – renderanno il nostro rapporto complicato, anche organizzativamente, in un pensiero insieme inconsapevole ma all’atto pratico straordinariamente calcolato, che non reggerà alle difficoltà…. Noi teniamo duro! Abbiamo forti affinità di ordine valoriale, di sensibilità: sentiamo le stesse cose, ci basta guardarci. E poi ci diamo sicurezza. Daniele per me è un porto sicuro anche se, poi, procediamo, nel comportamento mentale e pratico, in maniera assolutamente diversa: io lenta, analitica fino all’esasperazione, pigra, puntigliosa, sostanzialmente solitaria nel “pubblico”, io che amo la casa, i giochi e le storie con i bambini. Nella folla mi ci perdo, amo i rapporti sicuri, trasparenti, del dirsi tutto, messi continuamente alla prova, che esaspero con le mie bizze, di cui tasto la robustezza, la tenuta…Io che chiacchiero… ma non posso fare discorsi sui massimi sistemi, che vivo senza certezze, sempre in ricerca, inquieta. Daniele è iperattivo, ama la confusione, la gente, legge i suoi autori cult: Ignazio Silone, inquieto credente; don Lorenzo Milani, Etty Hillesum… E poi la sua ossessione per Bonhoeffer e i santi profeti dei nostri giorni dei quali mi riempie spesso la testa: quelli che ci hanno lasciato – don Giuseppe Dossetti, padre Balducci, don Tonino Bello - e quelli che pungolano continuamente: padre Alex Zanotelli, Arturo Paoli… E ha sempre qualcosa da fare, una proposta da lanciare: il convegno su don Milani, il pellegrinaggio ai campi di concentramento, un’intervista ad Ermanno Olmi. Tutto da fare in compagnia: i pranzi conviviali definiti sfacciatamente “di lavoro”, le telefonate “organizzative” solo per “contarla su…” E l’organizzazione dei tempi: gli articoli scritti tra le 23 e le 3 del mattino, la sveglia che suona a perdere la mattina, il “caso” di un incontro imprevisto che va sempre a impicciarsi con la sua puntualità sul rientro. Daniele che è piantato per terra, che ama la vita, che smussa gli aculei alla morte e alla sofferenza con la voglia di vivere. Io vivo nel piccolo, studio le piccole cose, un gesto, una parola, una stanza, un’espressione del viso, un’ora del giorno, me ne innamoro, la spero immutabile, la spero invisibile all’usura del tempo, dell’imperfezione. Ne divento gelosa… La mia ira per la “corruzione” (il dolore, la sofferenza, il caos, l’ingiustizia…) è profonda; vista dal fuori come malinconia, forse cinismo, è anche una rabbia sorda, un’impotenza cui il cuore non si abbandona, sempre lì, vigile, per vedere se si può capire, se si può ordinare, se si può combattere… Daniele allora è l’altro mio movimento, la mia energia positiva, l’altro punto di vista. Insieme, nella differenze, ci integriamo e abbiamo costruito terre di mezzo dove imparare a stare entrambi con piacere e dignità. Toh!Quando lo vedo in azione a 360°, mi sembra un po’ eccessivo, a voler guardare, direi un attimo poco elegante… Ma solo da vedere, io penso, perché comprendo perfettamente la sua tendenza: che se si deve morire allora bisogna vivere alla grande, se è un’avventura unica che ci tocca vivere deve essere eccezionale…. E’ da quando ci siamo sposati che - ci diciamo – vorremmo sistemare al meglio la nostra casa. Sarà perché siamo in affitto o, molto più realisticamente, la nostra pigrizia ha sempre il sopravvento sui nostri “piani quinquennali”… così i cambiamenti sono pochi e rari… Nella grande sala – quasi sin dall’inizio – troneggia però un poster con una foto di Doisneau che a te piaceva molto e che ti ho regalato ad un compleanno: “Il bacio all’Hotel de Ville”. In realtà, anche se non te l’ho detto, a me quella foto, in bianco e nero, piace. Due giovani, a Parigi, incuranti della folla che passa velocemente attorno a loro, si baciano appassionatamente. Il fotografo è riuscito a dare intensità e leggerezza ad un gesto antico – il bacio – e, insieme, a ricordare che i due innamorati non stanno fuori dalla storia, ma sono dentro lo svolgersi della vita e delle persone che passano loro accanto. Regalano alla città in movimento, il respiro – leggero e profondo – che dà senso alle cose, anche alle corse, all’affanno… Un po’ come gli sposi dei quadri di Chagall che volteggiano, innamorati e con il sorriso un po’ stranito, sulle città ai loro piedi. Insomma, sarebbe bello tenere insieme, sempre, la voglia di volare e i piedi per terra, perché – come dice Bonhoeffer dal carcere di Tegel – “solo chi ama la terra desidera e sogna che sia eterna”2. Anche in questo, ci stanno due verità sulle quali ci siamo diverse volte confrontati e scontrati. Da una parte il matrimonio non appartiene a se stessi: è un dono e quando Dio fa un dono lo fa perché diventi per tutti. Ricordi la chiamata di Samuele o di Geremia o dei tanti profeti della Bibbia? Ciò che viene loro dato è chiesto di condividerlo. E tanto più saranno capaci di metterlo in comune tanto più troveranno il senso della loro vita. Il matrimonio è una chiamata e, visto che abbiamo parlato dei profeti, possiamo dire che è una “vocazione”. Certo, il termine può risultare – per l’uso esclusivamente presbiterale – ambiguo, ma la realtà è questa. Nei fatti succede che per diventare sacerdoti il cammino è lungo, il discernimento e l’accompagnamento sono continui e costanti, mentre per sposarsi in chiesa basta un corso di sette o otto incontri… Ma questa è un’altra storia, quello che conta è percepire che l’amore ci precede e noi – dentro la nostra storia – dobbiamo riconoscerlo, dargli un nome e cercare, anche all’interno delle nostre contraddizioni, di dargli forma. La seconda verità è che l’amore stesso è una vocazione, a prescindere dalle cose che noi due facciamo, anche in campo ecclesiale. Siamo chiamati a volerci bene: questo è il nostro “ministero coniugale”. Non c’è altra ragione: crescere insieme, dialogare, ascoltarci, saperci perdonare, questo è ciò a cui siamo chiamati. Non saremo misurati né sul servizio End svolto né dal numero di serate perse in parrocchia ma soltanto se siamo stati capaci di raccontare la tenerezza di Dio attraverso il nostro feriale e quotidiano prenderci cura uno dell’altro, se riusciamo a vederci faccia a faccia, da solo a solo, uno a uno, perché “la porta dell’umano è il volto”. L’amore di Dio non è efficace per noi se non diventa amore di persone umane: gesto e sorriso, affetto e tenerezza. Ognuno di noi porta per gli altri un dono che è più grande di sé, un dono che però non può trattenere nelle sue mani, ma deve saper offrire perché la vita non venga tradita e possa esprimersi in tutte le sue forme. E’ per questa ragione, forse, che – per lungo tempo – la chiesa antica, almeno fino al quinto secolo, non ha sentito la necessità di un particolare rito ecclesiastico del matrimonio. Aveva compreso che solo vivendo l’amore si celebrava la sacramentalità. Il rito potrà svelare questa sacramentalità, illuminarla, ma non fondarla. Essa si fonda sull’amore: l’amore dell’uomo e della donna è già – anche per chi non è credente – segno e sacramento dell’amore di Dio. In fondo, come scrive spesso don Borsato, “vivere l’amore è gia vivere la fede”. È ebreo da parte di madre, ebreo da parte di padre, eternamente ebreo per quel suo modo di andare ovunque senza trovare da nessuna parte un rifugio, meravigliosamente ebreo per quel suo amore infantile per gli indovinelli - come l'uccello che con il canto pone interrogativi e per tutta risposta riceve una pietra e canta ancora, anche morto canta, ancora, ancora, ancora, anche molto tempo dopo che la pietra che l'ha ucciso è tornata friabile, polvere, meno che polvere, silenzio, meno che silenzio, nulla, e sempre permane questa vibrazione del canto puro nel nulla manifesto del mondo. La morte è economa, la vita è prodiga. Lui parla solo della vita, con parole a lei proprie: coglie dei pezzi di terra, li raduna nella sua parola e il cielo appare, un cielo con alberi che volano, agnelli che danzano e pesci che ardono, un cielo impraticabile, popolato di prostitute, di folli e di festaioli, di bambini che scoppiano in risate e di donne che non tornano più a casa: tutto un mondo dimenticato dal mondo e festeggiato là, subito, adesso, sulla terra come in cielo. È pesantezza delle società mercantili - e tutte le società sono mercantili, tutte hanno qualcosa da vendere - concepire la gente come cose, distinguere le cose in base alla loro rarità, e gli uomini in base alla loro potenza. Lui, ha quel cuore di bambino che nulla sa di distinzioni. Il virtuoso e la canaglia, il mendicante e il principe: a tutti si rivolge con la stessa voce solare, come se non ci fosse né virtuoso, né canaglia, né mendicante, né principe, ma solo, ogni volta, due esseri viventi faccia a faccia, e in mezzo ai due la parola, che va, che viene. Cerco a volte di condurre con me Daniele nei miei inabissamenti, lo conduco per mano nelle mie disamine, nelle mie analisi, scavo, scavo….per capire, per scoprire il significato di un gesto vissuto, di una parola, di un sentimento confuso… mai che Daniele abbia resistito…! “Non ci porta da nessuna parte… non ci serve per vivere… così ti fai fregare e invece la partita la devi giocare vivendo non pensando…” E così, io penso, che questo sia il nostro modo di alimentarci a vicenda, vivendo e verticalizzando insieme, guardando fuori e facendo risuonare dentro, non morendo nell’attivismo né nell’analisi, ma guardandoci negli occhi, per vedere se stiamo dando vita a uno sprazzo di verità, se ci stiamo giocando pienamente come uomini, se non stiamo barando… E’ questa una sorta di dialettica delle parti, un ruolo quasi consapevolmente scelto da entrambi, come spesso vedo accadere nelle coppie. La parola che va e che viene…. Stare insieme, lo abbiamo scoperto molte volte, è un puro atto di fede. O meglio, è un movimento che chiede di essere “decifrato” per scoprirvi dentro le tracce di un gesto umano che lasciato lì, da solo, rischia di non dire nulla. In fondo, la tentazione – o il peccato? – è proprio questa: lasciar scorrere la vita senza fare la fatica di interpretarla, di non cogliere l’ “oltre” che, inevitabilmente, ogni gesto, ogni tenerezza, ogni ascolto porta con sé. E’ la “verità del quotidiano” che tu mi hai insegnato a ricercare, con le sue grandezze e le sue miserie, della vita ordinaria, intessuta di piccoli avvenimenti e di esperienze apparentemente irrilevanti, ma in realtà cariche di grande spessore umano. Certo, la possibilità che questo spessore venga alla luce è legata ad un difficile lavoro di scavo che tu mi obblighi – spesso mio malgrado – a fare. Come la samaritana che al pozzo non si spaventa di chiedere a quell’uomo – così strano e così penetrante – domande e questioni grandi. Solo alla fine di quel dialogo – certamente non immaginato all’inizio – lei riconoscerà in Gesù il Messia e nell’incontro con lui il punto di svolta della sua vita; ma tale grande “vocazione” (ancora una volta!) non avrebbe potuto realizzarsi senza le piccole e provvisorie risposte che ella seppe dare ai segni preliminari che l’incontro con lo straniero le trasmetteva. Anche sposarsi in chiesa chiede questo lavoro. Al termine degli incontri di preparazione, don Francesco, il prete che ci ha sposato – oggi in Africa come missionario – ci aveva detto chiaramente di non avere l’idea che il sacramento – “rito che produce o dà la grazia” – sia qualcosa di magico. Come se quel gesto – solenne e pubblico – avesse in sé una specie di potenza magica. In realtà, noi questa idea non l’avevamo, ma nemmeno, in modo compiuto, avevamo idea di cosa fosse e a quale impegno stavamo dando il nostro consenso. Scambiavamo l’ignoranza per incoscienza. E allora fammi fare un poco il lavoro di teologo… Vedi, se c’è qualcosa che non è magico, né strano, è il sacramento. Per capire il quale più che a pensare cose nascoste o straordinarie è meglio pensare alla realtà più concreta di tutte che è il corpo. Se ci pensi un po’, anche i gesti e gli atti del nostro corpo realizzano ciò che significano: “esprimono” una realtà significativa della vita umana. I gesti più carichi di valore e di senso sono i gesti più concreti e incarnati: gesti di amicizia e di tenerezza, dalla mano sulla spalla alla carezza, all’unione carnale; ma anche doni scambiati, banchetti in comune… Gli atti più “reali” della nostra vita sono i più “simbolici”: quelli più capaci di realizzare qualcosa di importante nella storia delle persone: come un incontro, la costruzione di una relazione, il rinnovamento della tenerezza, lo stabilirsi di un patto. In un certo senso è il nostro corpo il primo e fondamentale “sacramento” del mondo. Forse così, a poco a poco, abbiamo compreso meglio il senso dei sacramenti cristiani: essi “significano”, esprimono e ti danno una grazia, un dono spirituale, attraverso realtà corporee: perché si rivolgono agli uomini, ai quali ci si può rivolgere solo mediante il corpo; e perché anche il Dio cristiano, amante degli uomini, ha preso un corpo. Il corpo di Dio è, infatti, Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato. Dio comunica con l’uomo e con il mondo attraverso il corpo di Cristo. Gesù Cristo, con i suoi gesti, significa il Regno di Dio e con la sua presenza lo rende realmente presente. Allora quando i cristiani dicono che il matrimonio è un sacramento, vogliono dire che esso in qualche modo si innesta sulla vita e sul corpo di Cristo. Dal momento in cui è finita la presenza visibile di Gesù sulla terra, è la Chiesa (“sacramento di Cristo”) che significa la sua presenza. Il modo più concreto e meno immaginario di capire cos’è un sacramento cristiano è l’appartenenza concreta alla vita della Chiesa. “Sacramento” vuol dire “ecclesiale”. Praticamente, è diventando ecclesiale che il matrimonio diventa sacramentale. Il sacramento del matrimonio è una tappa del nostro cammino cristiano che è cominciato con il battesimo. Quando – senza peraltro capire molto – abbiamo deciso di sposarci in chiesa siamo arrivati ad un punto decisivo della nostra vita. E’ come se avessimo compreso e realizzato la parola che stava all’origine: “L’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una cosa sola”. Questo mistero è grande, dirà san Paolo. “Mistero” nel senso che a noi, nella nostra incosciente superficialità, veniva regalato qualcosa di profondo. All’inizio di ciò che eravamo e di ciò che siamo, sta la tenerezza di Dio e a legare – misteriosamente – ogni cosa c’è un “sacramento”, un giuramento eterno, una promessa fondati su una fedeltà unica: quella di Dio a Dio; che Dio si è degnato di rivelare e comunicare agli uomini. Nel nostro amore – “così fragile, così violento” lo cantava Prevert – nel consenso delle nostre libertà, che si esprime nel dono dei nostri corpi, viene nel mondo e prende corpo l’Amore che Dio ha per Dio: e per gli uomini. Questa è la ragione per la quale per i cristiani il matrimonio tra un uomo e una donna si può capire ultimamente solo guardando come in Cristo Dio si unisce all’umanità. Il movimento profondo con il quale Cristo si è unito alla Chiesa e il movimento con il quale l’uomo e la donna si uniscono tra loro, rinviano a un mistero comune: quello del Dono e dell’Agape. Solo attraverso ciò che noi viviamo è possibile intravedere, in misura molto limitata, qualcosa del volto di Dio. Ciò che dice è illuminato da verbi poveri: prendete, ascoltate, venite, partite, ricevete, andate. Ignote quelle parole mezze velate, mezze consegnate, la cui oscurità permette ai potenti di consolidare la loro potenza.Non parla per attirare su di sé un briciolo d'amore. Quello che vuole, non per sé lo vuole. Quello che vuole è che noi ci sopportiamo nel vivere insieme. Non dice: amatemi. Dice: amatevi. Un abisso tra queste due parole. Lui è da un lato dell'abisso e noi restiamo dall'altro. È forse l'unico uomo che abbia mai davvero parlato, spezzato i legami della parola e della seduzione, dell'amore e del lamento. È un uomo che va dalla lode alla disaffezione e dalla disaffezione alla morte, sempre andando, camminando sempre. Non fa dell'indifferenza una virtù. Un giorno grida, un altro giorno piange. Percorre l'intero registro dell'umano, l'ampia gamma emotiva, così radicalmente uomo da raggiungere dio attraverso le radici. È tenero e duro. Spezza, brucia e riconforta. La bontà è in lui come una materia chimicamente pura, un diamante. Il suo spirito è leggermente assente, e questa inezia d'assenza è la sostanza del suo essere attento a tutto. Preso in un caos di desideri e di richieste, stretto da una folla che si contende i suoi favori come i passeri si tuffano a nugolo su un unico pezzetto di pane, distingue nettamente il fruscio di una sola mano su un lembo del suo mantello, si volta immediatamente e chiede chi l'ha toccato, chi gli ha sottratto una parte della sua forza. La ladra - sì, naturalmente è una donna, perché le donne hanno saputo subito conoscere in lui la più grande intelligenza vivente, l'intelligenza del dono; perché le donne non si ingannano sulla luce che emana da lui: è la stessa che esce da loro per inondare la carne dei loro figli - la ladra per amore è quella che indubbiamente l'ha inteso meglio: prendete quello che vi do, ve lo do senza condizioni e, siccome ve lo dono assolutamente, ce n'è assolutamente per tutti - ciò che si condivide si moltiplica. Abbiamo visto ultimamente il film di D’Alatri (“Casomai”) che vi invitiamo a vedere: ci è sembrato interessante, ha detto qualcosa di noi. Non ci siamo ritrovati nei due giovani che arrivano al matrimonio in Chiesa per volere dei parenti… ma nella loro caparbietà dello stare insieme rispetto ad un contesto fatto di coppie di sposi che spesso non sono di aiuto, in una sorta di egoistica autodistruzione. In fondo, io penso, che c’è stata una latitanza delle nostre famiglie di origine un po’ colpevole, forse tendenzialmente disgregante, che, a volte, ha acuito i nostri conflitti, mettendo in rilievo e in guardia sui giochi di forza, sul potere, sull’autorealizzazione tra i due coniugi. E forse questo stare soli, lasciarsi soli, è forse più di una tendenza, è una colpevole mancanza che spesso è più estesa, una sorta di competizione tra coppie, a chi ce la fa e a chi non ce la fa, al mostrare di essere o.k. (un fitness della coppia), che lascia tutti più soli, più sguarniti, più fragili…. D’Alatri conclude che oggi il matrimonio è un rito privato: soli sono i giovani, come i loro genitori che non sanno prestarsi aiuto come coppia, magari come singoli. E’ come se fosse evidente la mancanza di una comunità che partecipa, che collabora al matrimonio e non solo assiste alla sua celebrazione. Nella nostra coppia, sono io che, a volte, dico che non ce la facciamo, che abbiamo il fiato corto. E forse anche a motivo dei momenti di deserto, di fatica, siamo assolutamente presi dall’incredibilità della forza, dalla tenacia del nostro amore… La fedeltà, “un esercizio di fede continuato nel tempo” lo chiama don Molari, nasce dal lasciarci coinvolgere appieno da questa relazione, dalla nostra vita insieme, dall’aderenza all’idealità con la quale ci siamo sposati, dalla fatica di coniugarli in un progetto comune che per me prende forma più nella quotidianità di scelte normali e in Daniele in gesti più forti, visibili. Talvolta, lo riconosco, siamo incoscienti nella gestione dei figli: insieme condividiamo la stessa meraviglia guardandoli, poniamo entrambi resistenza alla banalità delle scelte e dei discorsi, siamo “ideologici”… L’approccio poi diretto ai figli si traduce in interpretazioni abbastanza diverse: Daniele gli legge episodi biblici e io che racconto episodi della mia infanzia, Daniele li porta “a spasso” alla cooperativa (di commercio equo e solidale), e io in bicicletta nel bosco. Eppure ci sentiamo ricchi: pensiamo di essere vivi e che una persona può stare bene con noi… siamo contradditori, bisogna conoscerci… un figlio potrebbe trovare energie per diventare grande… E’ così che aspettiamo il terzo figlio…. Certo, la realtà sacramentale non si esaurisce nel rito celebrato. Anzi il rito stesso chiede di partire, di andare “oltre”, di non fermarsi. Un po’ come la storia di Abramo, costretto da Dio e dalle circostanze, a lasciare il suo orizzonte per incamminarsi verso un altro, a rialzare le tende e a rimettersi in cammino. Come Abramo anche noi abbiamo sentito, più volte, il bisogno della benedizione di Dio che, nella nostra storia, non ha annullato le differenze. Il rito non ha cancellato le fatiche, non ha ridotto le asperità. Babele o Pentecoste? Differenze che gridano verso il cielo o molteplicità ricomposte? Il rito non ha risolto l’enigma che, ogni giorno, è consegnato alla nostra libertà. Ci ha ricordato come imparare a vivere alla presenza di Dio ma è la vita di ogni giorno il luogo dove renderlo presente. Vi sono pagine di un teologo milanese, Pierangelo Sequeri, che don Roberto – il nostro consigliere spirituale al quale dobbiamo davvero tanto – cita spesso. Sono la parte conclusiva di un libro (“Senza volgerti indietro”, Vita e Pensiero3) che vi consigliamo caldamente di leggere. Sequeri dice che gli affetti dell’uomo non producono automaticamente verità e bene. Anzi, egoismi, tragedie, distruzioni, nascono da affetti che si depravano. Del resto “per amore di Dio” il Figlio innocente è stato messo in croce (e i vincoli più sacri possono arrivare al delirio). L’esame del cuore è il punto vitale per il discernimento degli affetti. Le cose cattive vengono “da dentro” (Luca 6,45). La qualità della coscienza va giudicata nella sua origine: chi desidera peccato, anche se non lo commette, ha già aperto la porta all’ingiustizia. Perché la giustizia vive e muore negli affetti. L’affetto corrotto prima o poi un danno lo farà. Della vita dell’anima, scrive Sequeri, nulla va perduto: nel bene come nel male. Da qui l’importanza di una affettività matura che non è aggiunta “magicamente” dal sacramento ma deve essere costruita, giorno dopo giorno, da noi due. Oltre agli affetti corrotti, Gesù critica però anche l’ordine degli affetti “buoni”, quelli cioè che scaturiscono dalla parentela, dall’amicizia, dalle radici comuni e che rischiano di diventare assoluti. Qui l’elenco è lungo: “Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me. Lascia che i morti seppelliscano i loro morti. Uscite per le strade e invitate ciechi e zoppi. Amate i vostri nemici: fate del bene a chi vi odia. Chi ama la propria vita la perderà. Chi vuol seguirmi prenda la sua croce e mi segua”. Insomma, ogni affetto umano è importante e costruttivo, ma deve sostenuto e giudicato dalla carità di Dio. A prima vista si potrebbe concludere che l’antitesi tra Dio e le creature è così forte che la perfezione cristiana sembra consistere nel rinunciare alla vita del mondo. La storia della chiesa ha conosciuto eresie – come lo gnosticismo - in cui si diceva che la perfezione cristiana era la rinuncia all’intero ordine degli affetti. Ogni legame umano, tra uomo e donna, in ordine alla generazione è peccato; ogni partecipazione alla vita politica è indegna del cristiano… E invece la fede della Chiesa osa dire: è nella carne il principio della salvezza. Caro cardo salutis (Tertulliano) e, con Ireneo, “la gloria di Dio è l’uomo vivente”. E’ abituale in certi ambiti ecclesiastici dichiarare spregevole il mondo (“noi non ci abbassiamo alle miserie del mondo”) e, quasi di conseguenza, trattare uomini e cose che vivono nel mondo in modo duro e crudele. In nome di un presunto bene superiore o per la gloria di Dio a volte si distrugge la speranza di un cristiano. E così dimentichiamo Giovanni che ci ripete che il criterio dell’amore di Dio è l’amore fraterno, “come io vi ho amati”. Il problema però è che attorno a questa parola vi è, anche in campo ecclesiale, troppa retorica. Dei valori dell’amore troppo spesso e troppo disinvoltamente si parla per denunciarne l’assenza: si dimentica che essi non sono evidenze “celesti”; sono invece evidenze rese visibili dalle forme concrete ed effettive dei rapporti umani. Non basta proclamare ai quattro venti la crescente precarietà della coppia: sarebbe il caso di individuare itinerari effettivi di rapporti che siano insieme chiari e convincenti. Dice di essere la verità. È la parola più umile che esista. L'orgoglio sarebbe di dire: la verità, ce l’ho. La possiedo, l'ho messa nello scrigno di una formula. La verità non è un'idea ma una presenza. Nulla è presente fuorché l'amore. La verità: egli lo è per il suo respiro, per la sua voce, per il suo modo amorevole di contraddire le leggi di gravità, senza farci caso. Il fatto che milioni di uomini si siano nutriti del suo nome, che abbiano dipinto con oro il suo volto e fatto risuonare la sua parola sotto cupole di marmo, tutto questo non prova alcunché riguardo alla verità di quest'uomo. Non si può prestar credito alla sua parola sulla base della potenza che ne è storicamente scaturita: la sua parola è vera solo in quanto disarmata. La sua potenza è di essere privo di potenza, nudo, debole, povero: messo a nudo dal suo amore, reso debole dal suo amore, fatto povero dal suo amore. Questa è la figura del più grande re d'umanità, dell'unico sovrano che abbia chiamato i propri sudditi a uno a uno, con la voce sommessa della nutrice. Il mondo non poteva sentirlo. Il mondo sente solo quando c'è un po' di rumore o di potenza. L'amore è un re privo di potenza, Dio è un uomo che cammina ben oltre il tramonto del giorno. Qualcosa prima della sua venuta lo intuisce. Qualcosa dopo la sua venuta si ricorda di lui. Questo qualcosa è la bellezza sulla terra. La bellezza del visibile è composta dall'invisibile fremito degli atomi spostati dal suo corpo in cammino. Proviene da una famiglia in cui si lavora il legno. Lui lavora i cuori, diversi e più duri del legno.Alcuni si associano al suo lavoro. Con fatica li forma ai principi di una nuova economia: non si fa nulla in serie, si va dall'unico all'unico. Non si vende, si regala. Siamo arrivati al matrimonio con gradi di consapevolezza diversa, in relazione all’età e alle esperienze. Daniele batteva su “progetto”, “famiglia aperta”… Io aderivo idealmente, ma in realtà non sempre capivo tutto. Il matrimonio l’abbiamo fatto a modo nostro: abbiamo voluto sottolineare la nostra dimensione ministeriale, abbiamo invitato un sacco di gente in una sorta di fattoria con un menù da mensa, abbiamo fatto una grande festa. I nostri amici di allora sono ancora le persone con cui ci vediamo, festeggiamo i battesimi, i momenti belli e quelli meno belli della vita. La nostra comunità di riferimento è sempre la parrocchia, scalcagnata e qualche volta di poco respiro, ma è lì che Dio ci ha posto. I nostri compagni di viaggio però sono i membri della nostra equipe: coloro con i quali verifichiamo costantemente il cammino, coloro che ci aiutano a riconoscere la grazia, con i quali mettiamo a nudo le nostre debolezze. Certo, c’è ancora parecchio amor proprio, reticenza a mettersi a nudo, goffaggini nel prendersi cura… La riscoperta del sacramento del matrimonio non è nata per una scelta della chiesa ufficiale né dei teologi di professione ma dalla ricerca delle coppie stesse. Come non ricordare il percorso delle prime coppie del nostro movimento che in tempi lontani – nel 1937! – ragionavano – profeticamente – sullo stato di vita laicale e coniugale chiedendosi come fosse possibile realizzare una santità che andasse oltre i modelli monastici o presbiterali ma attraversasse, con passione e fede, anche la carne dentro una prospettiva di matrimonio che andasse oltre “il rimedio alla concupiscenza”…. C’è stato un Concilio, molti gruppi di spiritualità familiare, documenti che stanno balbettando, ancora troppo faticosamente, una dignità propria e specifica della vocazione matrimoniale, teologi che, sottolineando il carattere secolare della famiglia, parlano di “clericalizzazione”4 della famiglia che trova nell’immagine della “piccola Chiesa” la sua espressione più evidente e diffusa. Lo abbiamo già detto ma è il caso di ripeterlo: è il matrimonio cristiano in sé che arricchisce la vita della comunità ecclesiale; è la vita familiare vissuta da cristiani che è in sé un dono alla comunità cristiana. Noi abbiamo imparato in questi anni che luogo del sacramento non è solo la chiesa, ma la tavola, il letto, la casa. Ma anche i corpi e i gesti con i loro linguaggi di desiderio. E insieme, a volte gioiosamente, a volte faticosamente, abbiamo imparato che la carezza e l’abbraccio, il bacio e l’unione carnale, dicono e realizzano l’accoglienza e il dono reciproco, l’addomesticamento dei corpi, l’apertura all’altro, l’unione affascinante nell’esperienza della differenza. Il godimento stesso è abbandono, grido verso l’incontro, l’estasi. L’unione dei corpi è contemporaneamente riconciliazione con la vita, rinascita, gioco, riposo, festa in mezzo alle difficoltà della vita, forza e fecondità. Vorremmo cioè dire con forza che – oggi più che mai – la riflessione teologica sulla coppia debba privilegiare la dimensione antropologica. Noi abbiamo imparato e stiamo imparando così. Lo sappiamo: il senso dell’esperienza familiare, e dunque la promessa e il comandamento in essa iscritti, debbono essere identificati in ultima istanza al Vangelo di Gesù. E tuttavia questa verità cristiana della coppia può essere riconosciuta ed espressa soltanto dentro la nostra storia; non invece quasi “applicando” ad essa canoni di un amore cristiano in ipotesi, noto a prescindere dalla coppia. Se io e te, ma se la chiesa tutta, cogliesse la sapienza dei gesti umani! L’amore cristiano non può essere detto se non a procedere dalle evidenze aperte e rivelate dalle forme concrete di prossimità umana. Solo quando diventiamo ogni giorno accoglienti del nuovo che entra, del passo inedito che ci è chiesto, della gratuità senza ricatti e condizioni, rendiamo presente e facciamo procedere il regno di Dio. Certo, insieme abbiamo anche imparato che oltre ad essere luogo di gioie e di piaceri, la vita coniugale – sacramento giorno dopo giorno – è anche luogo di fatiche e di sofferenze. Le nostre discussioni che ci fanno pensare di non essere presi sul serio, i conflitti che rendono acuta la percezione che sono necessari, ancorché difficili da vivere, i sacrifici del dover morire per far vivere, le conversioni che fanno di ogni amore una “passione”. Abbiamo sperimentato che, se preso sul serio, nella libertà e nella responsabilità, ogni sacramento cristiano contiene una grazia di “guarigione”. L’alleanza matrimoniale, inutile nasconderselo, unisce te e me, due esseri fragili, spaventati, a volte egoisti: ha bisogno di essere salvato da mille pericoli. Il sacramento del matrimonio – come del resto tutti gli altri sacramenti – è salvato da Dio e dai modi concreti con cui Dio si fa incontrare: gli altri. Parla spesso di suo padre. Un adulto che parli di suo padre è un uomo che riscalda un'ombra. Con lui è diverso. Da come ne parla, si direbbe che suo padre non appartiene al passato ma al futuro. Suo padre ha un vocione. Una voce che impaurisce bestie e uomini. Il padre ha una reputazione da temporale, il figlio viene a calmarlo, ad addomesticarlo. Dice: vedete, mio padre è come un uomo che aveva due figli, uno tranquillo e uno matto che ha voluto subito la sua parte di eredità e se l'è spesa in vini, donne e divertimenti di ogni tipo. Poi ha avuto fame, il matto, non aveva più una lira in tasca ed è tornato a casa rosso di vergogna. Si è nascosto in un angolo si è messo a mangiare con le bestie. Il padre, quando l'ha scoperto, l'ha abbracciato, l'ha portato alla luce del sole e ha deciso di fare una grande festa, per tutti. L'altro figlio ha cominciato a recriminare: questo sistema non gli piaceva, tutte quelle spese in una volta e per chi poi? Per un ingrato, un fannullone; a cosa serve essere avveduto economo e fedele, a cosa serve allora? Il padre beveva, cantava, rideva. Quei rimproveri non li ha neanche sentiti. Era un tipo d'uomo particolare: sentiva solo la gioia; per il resto, era sordo. Di sua madre non parla mai. È ovunque in lui. È una contadinella, poco più che adolescente. È sul suo volto che egli ha aperto per la prima volta gli occhi. Questa prima volta rimane per lui, come per ogni essere umano, incisa nel più profondo della carne, incancellabile. In campagna si dice di un bambino che "ha preso" più da suo padre o più da sua madre. Lui "ha preso" da sua madre l'ampiezza dello sguardo, e la dolcezza conservata anche nelle parole più rudi. Lei lo vede morire. Nulla di peggio può capitare a una madre. Non ci sono parole per un dolore simile. Non c'è parola in nessuna lingua per ciò che ci strappa vivi alla nostra vita. Ci sono solo le sue parole che sono più che parole. Non sembra seguire un percorso a lui noto. Potremmo addirittura parlare di esitazioni. Cerca semplicemente qualcuno che lo ascolti. È una ricerca quasi sempre delusa, il suo cammino è quello delle delusioni, da un villaggio all'altro, da una sordità alla seguente. Come la falda d'acqua in cerca di una via d'uscita: scava, gira, ritorna, riparte - fino al colpo di genio risolutore: il getto impetuoso che sgorga in un pieno respiro polverizzando l'ultima diga. Quest’ idea del tener “la finestra aperta sul mondo”, di mangiare pane e giornale, nasce con noi, appartiene al nostro patrimonio genetico, a quello delle nostre famiglie (mio padre era un sindacalista ed è un cristiano fervente), del nostro curato oggi missionario, dei tanti preti anche loro ora missionari che si sono avvicendati nella nostra parrocchia, delle nostre storie prima ancora che di noi due insieme. Abbiamo coniugato questa sensibilità modellandola sulla nostra coppia, con i suoi punti di forza e di debolezza. Respiriamo con il mondo, ne misuriamo la temperatura… provochiamo continuamente la nostra sensibilità e il nostro intelletto, siamo provocati da chi ci sta vicino. Talvolta sento questo, come dire, un po’ troppo sloganistico, forse troppo rumoroso, troppo intellettuale, …. se poi non siamo poveri con i poveri, solidali con i sofferenti, indignati con chi subisce offesa o lo siamo solo ad una certa distanza, io credo sia un limite nostro, forse non superabile, forse non a tutti è chiesto questo… Credo, alle volte, che se riuscissimo a sincronizzare i nostri tempi e le nostre modalità o a lasciar perdere i perfezionismi, potremmo vivere con una maggior prossimità situazioni di accoglienza proprio dentro la nostra relazione, la nostra famiglia. Sì, sì, c’è bisogno anche di segni, di parole… ma il Verbo si è fatto carne, non parola o chiacchiera. E la lettera agli Ebrei lo dice chiaramente: “Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo.” Una cosa ho sempre faticato a comprendere: come mai il sacramento – segno della presenza di Dio che si muove nella storia per pro-vocarla – è vissuto per lo più come un fatto privato? Il sacramento apre al futuro, al futuro che verrà, al futuro di Dio. Come è possibile che questo futuro sia sotto il segno dell’individualità? Il sacramento – ancora – è un tentativo di guardare la storia con gli occhi di Dio: occhi di benedizione e di gratuità, occhi di fiducia e di perdono. Celebrarli è compito di una comunità che ricorda e fa presente, qui e adesso, la logica di Dio. Sono un’anticipazione di futuro soprattutto per chi si sente povero e fallito. E’ una memoria che provoca. E provoca “insieme”, mai da soli. Sono le parole di Metz che tanto mi avevano colpito quando le avevo lette: “la fede cristiana può e deve essere considerata memoria sovversiva e la Chiesa in certo modo è la forma della sua manifestazione pubblica”5. La memoria della passione di Cristo, della sua morte e resurrezione rappresenta la consapevolezza che l’evento fondamentale della storia si è compiuto e che noi viviamo nell’attesa del suo ritorno. Il potenziale sovversivo sta in questo vivere in un’attesa di un ritorno di una persona di cui facciamo quotidiana memoria. La memoria non è ricordo del passato, ma testimonianza e attesa del futuro. Per questo la memoria va custodita. Così non è sempre andata e anche noi non sempre siamo stati capaci di capire che la nostra fede – come quella dell’israelita – è prima di tutto una fede corale, comunitaria. “Non ci si salva se non insieme”, diceva uno spiritual. Vale per me e per te; vale per tutti. Pochissimi riescono a tenere il suo passo. Una manciata di uomini e alcune donne. Le donne hanno un vecchio legame coniugale con la fatica e il rifiuto della fatica. Verso la fine, annuncia che "là dove va" nessuno potrà seguirlo che non si tratta di un abbandono, perché "là dove va" avrà la stessa costante benevolenza per ciascuno. Le società ci prendono per quantità, in blocco, in massa, a cifre. "Là dove va" non potremo andarci diversamente da lui: solo - come a un appuntamento. I quattro che descrivono il suo passaggio sostengono che, morto, si è rialzato dalla morte. È questo indubbiamente il punto di rottura: questa storia che ha molti tratti della luce serena d'Oriente, assume qui una dimensione incomparabile. O ci si separa da quest'uomo su questo punto, e si fa di lui un sapiente come ce ne sono stati migliaia, pronti magari ad accordargli un titolo di principe. Oppure lo si segue, e si è votati al silenzio, perché tutto ciò che si potrebbe dire è allora inudibile e folle. Inudibile perché folle. L'uomo che cammina è quel folle che pensa che si possa assaporare una vita così abbondante da inghiottire perfino la morte. Coloro che ne seguono le orme e credono che si possa restare eternamente vivi nella trasparenza di una parola d'amore, senza mai smarrire il respiro, costoro, nella misura in cui sentono quel che dicono, sono forzatamente considerati matti. Quello che sostengono è inaccettabile. La loro parola è folle e tuttavia cosa valgono altre parole, tutte le altre parole pronunciate dalla notte dei secoli? Cos'è parlare? Cos'è amare? Come credere e come non credere? Forse non abbiamo mai avuto altra scelta che tra una parola folle e una parola vana. Certo, il grande regalo della nostra vita – più grande dei nostri limiti e dei nostri difetti – sono stati gli altri e anche i nostri figli. Sono stati loro a indicarci strade che, se anche non abbiamo battuto sempre con coerenza e costanza, ci hanno sollecitato e inquietato. Il commercio equo e solidale, la finanza etica, il boicottaggio, il valore dell’affido o dell’adozione, il consumo critico e responsabile, il valore della “sobrietà felice”, la necessità di vigilare perché sulle porte delle nostre case imborghesite ci stia – come la mezuzah ebraica – l’I Care milaniano: il “mi sta a cuore, mi interessa”. L’esatto contrario – annotavano i ragazzi di Barbiana – del “me ne frego fascista”. Gli altri, i nostri stessi figli, ci hanno portato là dove non sempre noi siamo stati capaci di vedere, ci hanno obbligato a regalarci stupore là dove le nostre pesantezze rischiavano soltanto di depositare fatiche. Un po’ come Damiel, l’angelo che osa diventare uomo nel film “Il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders “La prenderò tra le mie braccia. Lei mi prenderà fra le sue braccia… E’ successo qualcosa. E continua a succedere. Qualcosa che mi vincola. Era notte e adesso è giorno… Io ero in lei, e lei era in me. Chi al mondo può dire d’essere mai stato insieme ad un altro essere umano? Io sono insieme… Questa notte ho imparato a stupirmi. E’ venuta a prendermi… L’immagine che abbiamo creato sarà l’immagine che accompagnerà la mia morte. In questa immagine avrò vissuto. Solo lo stupore su di noi, lo stupore dell’uomo e della donna, ha fatto di me un uomo. Io, ora, so ciò che nessun angelo sa”. Mi ha sempre colpito la tua paura della morte. Il senso del qui e adesso incombente. Credo che dobbiamo sfuggire al miraggio – oggi così diffuso, anche tra gli equipier – di una vita di coppia modello, senza difetti e miserie. Sì, certo, oggi l’amore appare tanto più libero da costrizioni sociali e parentali e tanto più fragile e precario. Forse la fatica sta anche in quelli che Lacroix chiama “i miti dell’amore”: il modello fusionale, l’illusione della felicità piena e totale connessa alla vita di coppia (in cui amore, felicità e piacere sessuale si intreccerebbero in una circolarità in cui l’uno rinvia all’altro e implica l’altro), il primato dato ai sentimenti e all’enfasi sulla spontaneità amorosa… In questo senso, ci sentiamo una coppia con i suoi alti e bassi, le sue fatiche e i suoi slanci, le sue crisi e le sue riprese che ci aiutano a comprendere le parole – sempre dure - di Christine Singer: “l’amore che lega l’uomo alla donna, la donna all’uomo, l’uomo e la donna all’amore, socchiude il suo mistero soltanto a quanti non temono di soffrire. Attenzione, non dico “a cui piace soffrire”, ma che non indietreggiano davanti ai passaggi obbligati della sofferenza, che non ritornano sui propri passi quando si tratta di passare a guado in mezzo al pietrame di un torrente impetuoso”6. Con gli anni, abbiamo imparato che bisogna amarsi senza fondersi e senza confondersi, che bisogna imparare a “rielaborare” i lutti, le piccole morti quotidiane che, nella nostra onnipotenza, non vorremmo né vedere né affrontare. “L’incontro nella separatezza” chiama l’amore Levinas. Quante volte hai pensato – e mi hai accusato - che dire questo significasse venir meno alla responsabilità assunta… Eppure ce lo diceva il saggio Qoelet il giorno del matrimonio. “C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante, un tempo per piangere e un tempo per ridere, un tempo per gemere un tempo per ballare, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci, un tempo per cercare e un tempo per perdere”. Per concludere, vorremmo chiedere al Signore il dono della fede. Oggi in gioco è la qualità della testimonianza perché la crisi del sacramento del matrimonio è rivelativa di una più generale crisi di fede. Vivere la vita come vocazione, andando oltre un io che costruisce da sé i suoi progetti (e progetti “contrattati in due”) per sentirci chiamati dal Signore sulla via che vorrà indicarci: per una vita piena e felice alla sequela dell’uomo che cammina, quel folle che pensa che si possa assaporare una vita così abbondante da inghiottire perfino la morte. Terminiamo con un racconto chassidico narrato da Martin Buber. “Un giorno in cui riceveva degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kokz li stupì chiedendo loro a bruciapelo: “Dove abita Dio?”. Quelli risero di lui: “Ma che vi prende? Il mondo non è forse pieno della sua gloria?” Ma il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda: “Dio abita dove lo si lascia entrare”. Ecco ciò che conta in ultima analisi: lasciar entrare Dio. Ma lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica. Se instauriamo un rapporto santo con il piccolo mondo che ci è affidato, se, nell’ambito della creazione con la quale viviamo, noi aiutiamo la santa essenza spirituale a giungere a compimento, allora prepariamo a Dio una dimora nel nostro luogo, allora lasciamo entrare Dio”7. 1Christian Bobin, L’uomo che cammina, Qiqajon, Bose 2Dietrich Bohoeffer, Resistenza e resa, Paoline, Cinisello Balsamo, 1988, p.379 3Pierangelo Sequeri, Senza volgerti indietro”, Vita e Pensiero, Milano 4Giuseppe Angelini, Destino storico della famiglia e responsabilità pastorale della Chiesa, in Aa.vv, Nuovo lessico familiare. La famiglia si racconta, Ave, Roma, 2002 5Johann Baptist Metz, La fede nella storia e nella società (1977; Queriniana, Brescia 1978), 6Christiane Singer, Dove corri? Non sai che il cielo è in te? Servitium, 2002, p. 50 7Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Bose, 1990, p. 65

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